Sono due ruoli che si alimentano uno con l’altro e ti fanno crescere in due direzioni. L’esperienza da attore mi aiuta nella direzione e nel rapporto con gli attori, conoscere il mestiere significa sapere come nascondere difetti e valorizzare i talenti, capire dove possono essere le difficoltà, anche se poi ognuno ha le proprie chiavi di accesso. Come regista ho la possibilità di dare ossigeno ad un immaginario diverso. Come interprete prediligo personaggi o storie che mi permettano l’immedesimazione, il rapporto naturalistico con la recitazione, entrare nell’emotività per trovare un percorso credibile dall’esterno. Nella scelta delle storie da mettere in scena mi piacciono invece quelle che hanno a che fare con il grottesco e mi ritrovo a chiedere agli attori cose che, se le chiedessero a me, mi troverei in difficoltà.
Da regista, è più importante una visione chiara di un punto di arrivo o costruisci attraverso l’ascolto degli attori, quindi con un percorso condiviso?
Entrambe le cose, dipende dai testi che si scelgono. Nel caso di Beckett, la cui scrittura è rivelatrice solo montando le scene (a priori puoi avere una conoscenza del 40-50 percento), conta molto la creatività condivisa con gli attori. Quindi in Godot è stato importante il gioco prettamente attoriale, la possibilità di cucire il personaggio sull’attore, in modo che questi diventi anche co-autore del percorso che sta compiendo. Sul altri testi, come ad esempio Pirandello [ha diretto “Così è se vi pare” nel 2011 e “Il piacere dell’onestà”, prodotto dal Teatro Due di Parma, presentato a Lione a ottobre scorso in scena in Italia nel 2018, ndr`> avevo fin dall’inizio un’idea molto chiara di quello che volevo, la creazione dell’attore c’è stata comunque, ma all’interno di binari più predefiniti.
“Aspettando Godot” è opera di oltre 60 anni fa, su quale aspetto ti sei maggiormente concentrato?
In Beckett c’è la disperazione nei confronti del mondo che ci circonda. Si parla della situazione dell’essere umano rispetto alla mancanza di punti di riferimento, alla direzione da prendere nel caos della vita. Beckett mi è sempre stato presentato come un autore che non dà grande speranza all’essere umano, io credo invece che in questo testo, come in molti altri, ci sia una enorme vitalità e un profondo amore per l’essere umano. C’è compassione per chi si trova in difficoltà cercando il senso della propria esistenza. Qui il gioco fra i quattro personaggi è molto vitale, per loro l’unica salvezza è attaccarsi ai rapporti umani sostenendosi a vicenda e non rimanendo soli, perché da soli non ce la si fa. A dispetto di questo mondo ostile, privo di dignità e aiuti dall’esterno, metafisico, la cosa importante è proprio l’attaccamento alla vita e alle cose belle che si possono incontrare. Per questo ho scelto Godot, l’azzardo è stato fare con attori giovani un testo scritto per dei vecchi. Ma noi quarantenni siamo segnati dalla mancanza di maestri, padri, riferimenti in un mondo in cui sventolano false verità, valori non consistenti né duraturi, perché durano il tempo che dura la loro immagine e vengono costantemente rimpiazzati. Il senso disperante della vecchiaia è già nella mia generazione e il testo è talmente potente che funziona lo stesso.
Con quale sentimento vorresti quindi che uscisse il pubblico dalla sala?
Il pubblico esce con fiducia e con la voglia di un sentimento positivo, una luce nella vita, anche se consapevole delle difficoltà che ha intorno. Legata a doppio filo al mistero dell’esistenza, c’è la voglia di esserci. E sentendo i commenti del pubblico lo spettacolo passa questa energia, la luce e la vitalità arrivano.
Come regista scegli sempre di misurarti con i classici, non ci sono autori contemporanei che ti interessino?
Amo i classici perché sono testi stratificati, in grado di parlare a vari livelli, è difficile trovare questa dimensione nei testi contemporanei, che spesso dopo 5-6 anni sono già vecchi. Ho avuto la possibilità di fare una lettura diretto da Lisa Natoli di “When the rain stops falling” (“Quando smette di piovere”) dall’autore australiano Andrew Bovell, in cui ho ritrovato questa forza. Nel testo si parla di legami familiari e del concetto che le radici riverberano in noi e continueranno a farlo in chi verrà dopo. Ecco, questo autore mi ha molto colpito e mi sono ripromesso di leggerlo. In genere invece i contemporanei preferisco affrontarli da attore.
Ad esempio a breve sarai in scena con “Sorella con Fratello”, di Alberto Bassetti…
Si, un testo che ha una forza di quel tipo, tratta un argomento abbastanza archetipico e perciò atemporale. Bassetti usa un meccanismo detonante per sviluppare rapporti familiari che hanno a che fare con l’incesto e con l’omicidio. Ha della tragedia, anche se è affrontato nella contemporaneità e ci sono passaggi leggeri, in cui si ride persino. Ma certi meccanismi parlano comunque al pubblico, hanno a che fare con la parte animale, con le radici, con il sangue...
Hai ricevuto due premi importanti: hanno cambiato qualcosa nella tua vita lavorativa o nel tuo “senso di responsabilità”?
Nel senso di responsabilità no, sono sempre stato iper-responsabile, predo sempre tutto anche troppo seriamente. Sono stati però importanti perché mi hanno dato dei segnali, la conferma di essere sulla strada giusta, e quindi una forza in più. Dal punto di vista concreto non hanno cambiato molto, anche perché l’ambiente teatrale italiano è abbastanza piccolo, la stima (o disistima) esiste a prescindere dai premi.
Esperienze fuori dall’Italia ne hai mai fatte o ti interesserebbe farne?
Mi interesserebbe molto. Come attore c’è ovviamente lo scoglio della lingua, come regista si possono avere più possibilità. Quando lavoravo al Teatro Due di Parma ho incontrato il regista ungherese Viktor Bodò ed è stata una bellissima esperienza mescolare approcci diversi, rispetto al lavoro sull’attore e alla messa in scena. In quel caso ad esempio ho sperimentato la giocosità, bella e alta, vicina alla clownerie, e una libertà nei confronti dei testi, un approccio anche infantile, importante in questo mestiere. Mentre noi tendiamo a rimanere rigorosamente rispettosi di alcune regole e dottrine forse più letterarie e accademiche che teatrali.
Come autore non ti sei mai cimentato?
Non credo che la scrittura sia una mia qualità, non mi è mai venuto spontaneo farlo. Lo ritengo un po’ un handicap, perché scrivere ti permette anche di lavorare al di là dei contratti, ti dà una maggior libertà.
Da spettatore cosa vai a vedere e cosa cerchi?
Vado a teatro meno di quello che vorrei, apprezzo i lavori che cercano di mandare un messaggio in maniera onesta e diretta, al di là dello stile con cui lo fanno. Mi piace chi ha la necessità di dire qualcosa che sia di aiuto, non chi cerca di mostrare il mondo così com’è semplicemente annotandone le brutture. Mi piace chi riesce a stimolare il pubblico a cambiare le cose. Bisognerebbe uscire dalla sala con l’idea che qualcosa si può fare, senza sentirsi eroi, ma un po’ più responsabili si. In Italia stimo molto Binasco, il lavoro che fa con gli attori, sul testo, mettendo in luce il lato perdente dell’essere umano, un po’ frick. Lo fa sempre con molto amore, è un lato molto riconoscibile, essendo noi macchine imperfette, e molto amabile.
Uno spettacolo che ha lasciato un segno su di te?
Quando ero ancora al liceo vidi “Finale di partita” di Carlo Cecchi [è solo un caso che sia Beckett!?`>, mi ricordo che anziché chiacchierare come al solito sono rimasto accalappiato per due ore, senza capire quasi niente, ma conquistato dalla magia e dalla consapevolezza che stessero succedendo cose importanti, anche se non le comprendevo. Istintivamente ho capito che il teatro è un mezzo che consente di parlare su livelli diversi contemporaneamente. E che non c’è bisogno solo del cervello per capire le cose.
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