Il viaggio in cui si è condotti, dal navigatore personale, tratteggia un discorso urbanistico, di una grande città vista come un organismo pulsante con il suo funzionamento fisiologico, i suoi gangli, i centri nevralgici, le sue arterie, i suoi canali di scorrimento, di trasporto, le tante possibili direzioni che si possono prendere, i mille percorsi. E l’itinerario parte dal grande cimitero, meta ultima degli individui della grande città, delle sue cellule, i suoi componenti infinitesimali, destinati a essere qui stoccate una volta esaurito il proprio ciclo. Un luogo, come il Cimitero Monumentale, fatto di grandi mausolei e di sequenze di loculi tutti uguali dietro l’angolo, che rispecchia le disuguaglianze e la divisione in classe della vita. E rispecchia anche la struttura urbanistica stessa della grande città che lo contiene, con un centro storico monumentale circondato dalle celle che si susseguono uguali come i palazzi delle periferie anonime. Quasi con un percorso circolare, si arriva all’ospedale, dal cui tetto si può ammirare lo skyline della nuova Milano, sotto il quale si era passati poco prima. Anche questo possibile luogo di destinazione ultima: dopo aver fatto tappa nella chiesa limitrofa, e, salendo sul tetto in ascensore, la voce nell’auricolare provocatoriamente si interroga su chi per primo possa avere un cancro al cervello. Un’allusione al ‘game over’ delle proprie funzioni, che torna spesso, come quando dall’alto di cavalcavia o della terrazza accenna alla possibilità o meno, a seconda che ci siano quelle barriere antisuicidio ormai obbligatorie, di buttarsi.
La visione urbana dell’itinerario di Remote Milano, è quella di un tragitto dei non luoghi, di quel tessuto connettivo omologato con tutte le grandi città, stazioni, parcheggi, marciapiedi, semafori, negozi di scarpe, corridoi di un ospedale, sale d’aspetto. Un agglomerato amorfo che ingloba i luoghi storici, e nel passaggio tra il primo e i secondi, siamo invitati a camminare all’indietro, continuando a osservare il grattacielo che ci siamo lasciati.
In questo contesto si muove l’orda dei partecipanti allo spettacolo, come un ammasso di globuli rossi, come un branco di pesci che si muove, quasi sempre compatto, come gli zombie di un film di Romero. Un gregarismo che a tratti prende coscienza della sua forza, nel fare massa, attraversando con il semaforo rosso, che può essere scatenato in balli o corse liberatori. Anche con un pizzico di arroganza, nel momento in cui invade spazi sensibili e sacri, per quanto pubblici: il cimitero, la chiesa, l’ospedale. Un gruppo vagante all’interno di una più grande massificazione, dell’alienazione generale, di un flusso di individui ignoti che attraversiamo tutti i giorni, in metropolitana, in strada. Nessun dubbio comunque: anche all’interno dell’orda, i componenti rimangono sempre degli estranei, isolati dalle loro cuffie, che creano una dimensione di distacco, di alienazione. E l’orda finirà per disperdersi in più rivoli. Il momento chiave è comunque quello in cui il branco viene fatto fermare, disponendosi in piedi al margine dell’atrio di una stazione, a osservare un teatro acquario, il teatro della vita di tutti i giorni, fatto di viandanti in transito, persone con la valigia, chi guarda gli orari, chi corre, chi si ferma per un caffè. Chi sono gli spettatori e qual è il palcoscenico? Chi osserva chi? Un teatro o uno specchio, come quello all’uscita del cimitero a cui abbiamo scattato un ‘selfie’? Non c’è più differenza nell’omologazione imperante che tutto pervade, siamo in un non luogo che è un non teatro fatto di non spettatori.
A guidare i componenti dell’orda è una non persona, una non voce, come essa stessa si presenta, afona, costruita con una preordinata composizione sillabica. Di quelle che ormai diventano sempre più pervasive nella nostra vita, che ci indirizzano e ci comandano nelle nostre azioni, con tutta una serie di alternative possibili: tutto è già preventivato. Come la cabina per fototessere ( e in effetti la voce porterà anche a scatti fotografici) o un navigatore satellitare. Come un gioco di ruolo dove si possono scegliere strade alternative all’interno del percorso guidato. La non regia del non spettacolo. Metafora di un mondo teleguidato , ordinato, incanalato da intelligenze artificiali.