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Combattendo IL PANICO tra cassetti della memoria e cassette di sicurezza...
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Gobetti di Torino martedì 28 maggio 2014
di Rafael Spregelburd 

traduzione Manuela Cherubini; regia Jurij Ferrini 

con Arianna Scommegna, Jurij Ferrini, Simona Bordasco, Roberta Calia, Lucia Limonta, Elisabetta Mazzullo, Viola Marietti, Francesca Osso, Michele Puleio, Dalila Reas. Voce del padre al telefono di Toni Mazzara

scene e costumi Anna Varaldo; luci Alessandro Verazzi; suono Gian Andrea Francescutti; assistente regia Carla Carucci; tirocinante dell'Università di Torino / D.A.M.S Martina Benci 

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Il teatro, come il mondo, è bello perché è vario, e può capitare che un regista (Jurij Ferrini) sia sedotto da un autore (Rafael Spregelburd) da vestirne la scrittura come seconda pelle, accogliendo ogni volta con passione la sfida di trasporne in scena i testi: è stato così, un paio di stagioni addietro, per Lucido, e di più lo è oggi per Il panico, spiazzante atto unico del drammaturgo argentino in prima nazionale nell’ultima produzione dello Stabile torinese.

Vaudeville noir con pillole di un Ionesco al quadrato? O pinteriano cocktail di personaggi e situazioni con comicità e grottesco a braccetto? Quale che sia la risposta, nell'insieme condito da una tagliente sperimentazione linguistica per mettere alla berlina vizi e deformazioni della condizione umana, con Il panico tradotto da Manuela Cherubini spazio ad una delle sette tessere di cui si compone il mosaico dell’Eptalogia di Hieronymus Bosch: è questo il ciclo drammaturgico, ispirato al dipinto del pittore olandese, con cui Spregelburd rappresenta il decadimento morale di una società fissata in crude istantanee con immagini e registri pronti a spaziare dal molto alto al tanto basso. Il tutto sempre riservando una particolare attenzione a storia ed attualità dell’Argentina nel nome di una strada o in una battuta appena abbozzata, nel richiamo ad una moda o nel ricordo delle pagine più nere della sua storia recente.

E la trama? Ecco, se c’è una cosa che in tutto questo è messo ai margini è proprio l’idea tradizionale di intreccio, il plot narrativo che nel caso de Il panico vede una famiglia disfunzionale di madre, figlia e figlio piangere, neanche troppo convinta, la recente scomparsa del marito-padre barcamenandosi tra compravendite immobiliari, scuole di ballo ed affannose ricerche della chiave di una misteriosa cassetta di sicurezza: universo quasi tutto al femminile dove ogni tanto fa capolino il fantasma del defunto, morto in circostanze non del tutto chiare in quella colorata casa di cui adesso la vedova vuole in fretta e furia disfarsi. E se la trama non è certo accattivante, è il sottotesto a dover incuriosire nella costante messa a fuoco del rapporto tra chi c’è e chi non c’è più: giocando ora di fioretto, ora di sciabola, Ferrini dirige uno spettacolo in assoluta aderenza alle linee guida del suo autore, dove la tragica consapevolezza di chi è morto si scontra con la disarmante fragilità di chi è vivo. Comico, ma mai sfacciato, drammatico, ma mai tragico, la piéce scivola via sbattendo in faccia allo spettatore l’importanza del ricordo, della volontà e capacità di non dimenticare mai il nostro vissuto anche quando, più o meno inconsciamente, ci tornerebbe utile cancellare tutto con un colpo di spugna: proprio come fanno i figli appena ritrovata la tanto agognata chiave, tra i sacchi della spazzatura, a simboleggiare l’istinto di assecondare una freudiana rimozione di quel che stato, pericoloso pretesto per quel che sarà.

Al netto di due ore abbondanti tutte filate (ipotizzare dei tagli in presenza dell’autore è sempre impresa rischiosa), il pubblico ripaga con meritati applausi l’intero cast guidato dallo stesso Ferrini con le ispirate Arianna Scommegna ed Elisabetta Mazzullo tirare la volata ai per nulla comprimari Dalila Reas, Michele Puleio, Roberta Calia, Lucia Limonta, Simona Bordasco, Francesca Osso e Viola Marietti, interpreti dello spettacolo corale "benedetto" dalla presenza in sala di uno Spregelburd assai soddisfatto nel vedere la sua galleria umana prendersi e prenderci in giro, senza con questo sottrarsi ad impietosi sguardi sul disarmante presente.
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