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Sono le maschere più che i volti a definire LA FORMA DELLE COSE
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Gobetti di Torino sabato 11 gennaio 2025
di Neil LaBute

traduzione Masolino d'Amico

con Christian Di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione 

regia Marta Cortellazzo Wiel; scene e costumi Anna Varaldo; luci Alessandro Verazzi; suono Filippo Conti 

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Ci si potrebbe, e forse ci si dovrebbe, a lungo interrogare su quanto il continuo ricorso a testi "borghesi" appartenga di diritto alla missione di un Teatro Nazionale ma tant'è che con La forma delle cose di Neil LaBute, sessantenne drammaturgo e regista statunitense, lo Stabile di Torino aggiunge l'ennesima tessera ad un mosaico già ricco di colori e sfaccettature, quello del ritratto di un'epoca contemporanea scandagliata da angolazioni diverse.

Questione di gusti, e di scelte, che nel caso di LaBute si trova a fare i conti con un terzo della cosiddetta Trilogia della bellezza, triade di copioni pensati per indagare il ruolo della bellezza esteriore in una società dove aspetto fisico ed apparenza sono valori irrinunciabili e discriminanti capaci di accendere un dibattito intergenerazionale e interlcassista: ne La forma delle cose diretto con cura ed attenzione da Marta Cortellazzo Wiel, e ottimamente interpretato da Beatrice Vecchione, Marcello Spinetta, Celeste Gugliandolo e Christian Di Filippo, in realtà tutto parte da un pretesto differente con i primi dieci minuiti in proscenio che vedono una giovane tesista di storia dell'arte "sfidare" la guardia museale in una querelle indirizzata verso il dibattito sull'arte e sulla sua funzione. Si capisce ben presto, però, che l'incipit altro non è se non specchietto per le allodole, con la sostanza cedere presto spazio alla forma, indirizzando il racconto verso strade differenti.

Di lì a breve, infatti, ritroviamo Evelyn ed Adam come coppia intenta a vivere una quotidianità di alti a bassi al pari dei futuri sposi Jenny e Philip, lui miglior amico di Adam, lei dello stesso conoscenza dai tempi dei liceo: e qui, quello che era partito come indagine su compito e funzione dell'idea artistica, diventa la più classica resa dei conti tra due uomini e due donne pronti a sfidarsi in un ring le cui corde sono una parete e un soffitto di specchi (scene e costumi di Anna Varaldo), quasi a voler moltiplicare all'infinito le sfaccettature della personalità umana. Volano gli stracci, nascono approcci, si insinuano dubbi, tutto passa sotto la lente dell'apparire più che dell'essere: se un merito va riconosciuto all'autore, e di riflesso all'intero gruppo di lavoro, questo è non aver creato piani paralleli, ma di aver portato in scena personaggi veri, forse molto simili a chi è seduto in platea a pochi metri, esponenti modello di quella classe media che abita la cultura occidentale e che oggi, aggiungiamo noi, in gran parte riempie i principali teatri.

Partita a scacchi in cui si è ora vittima ora carnefice, ne La forma delle cose il passato ritorna in tutto il suo carico di segni, leggasi cicatrici, con i quattro applauditi interpreti abili nel riprodurre quel diabolico sistema di relazioni che li vede a turno ora estorcere confessioni, ora portare a galla scomode verità e inaspettati segreti, sempre lavorando di fioretto più che di spada, usando la parola come inscalfibile grimaldello: esito finale, e altro epilogo non poteva esserci, il crollo totale del sistema di certezze su cui ognuno ha eretto il fragile edificio della propria identità, con istinti e pulsioni sacrificati nel nome dell'apparenza e dell'esteriorità, di un sistema di valori che antepone la maschera al volto.
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