immagine home.jpg
TANTE FACCE TRA TEATRO E CINEMA: INTERVISTA A BIANCA NAPPI
a cura di Giampiero Raganelli
Una chiacchierata con Bianca Nappi su Neil Labute e la drammaturgia contemporanea, i registi esordienti al cinema, il teatro della memoria sull’eccidio delle Fosse Ardeatine.
In scena al Teatro Franco Parenti con Some Girl(s) di Neil LaBute, per la regia di Marcello Cotugno e poi con Tante facce nella memoria per la regia di Francesca Comencini sull'eccidio delle fosse Ardeatine, mentre in sala al cinema escono La mia famiglia a soqquadro di Max Nardari e Honeymún di Salvatore Allocca, dei quali è protagonista. Un periodo intenso per Bianca Nappi, attrice di teatro, televisione e cinema. L’abbiamo incontrata al Franco Parenti, durante le repliche di Some Girl(s).
Nello spettacolo Some Girl(s), ognuna di voi quattro attrici, le ex del protagonista, è connotata con un colore diverso, che è anche il colore della stanza dove si svolge il proprio momento. Quale interpretazione è alla base di questa scelta? 

L’idea è legata al testo: ogni donna rappresenta una fase e un tipo della vita sentimentale di quest’uomo. Quindi c’è il primo amore che è verde, la storia passionale e trasgressiva, la mia, rossa, c’è la donna più matura ed è il blu, e poi c’è il nero, che è un colore neutro, della donna che poteva essere la compagna giusta, ma poi non è stato così. 

La vostra recitazione è naturalistica, ci deve essere un lavoro sulla psicologia dei personaggi. Come vedi il tuo personaggio di Tyler, e come ci hai lavorato? 

È un personaggio molto bello, Neil LaBute è un grandissimo scrittore di personaggi femminili. Io ho già fatto un altro lavoro dai suoi testi, Re(l)azioni, per la stessa regia, di Marcello Cotugno. Un lavoro di tre monologhi, di tre donne diverse. Labute ha una penna pazzesca. Riesce a tratteggiare i personaggi femminili con anche molto di ‘fuori dalle righe’. Il personaggio di Tyler è apparentemente questa donna molto disinibita, che si accontenta e vive di avventure. Ma poi in realtà come viene fuori dalla scena, c’è tutto un sottofondo di malessere e frustrazione che lei ha paura di ammettere anche a se stessa. È molto comune tra le donne, ti trinceri dietro una corazza di bella donna, di donna avvenente, spregiudicata. In realtà quella è una maschera che nasconde certe voragini di paura e insoddisfazione. Noi abbiamo fatto un lavoro molto lungo, questo è uno spettacolo che nasce quattro anni fa al Teatro Bellini di Napoli, e abbiamo provato molto. Marcello Cotugno ci ha mandato in giro, un giorno, per strada, a cercare tra i passanti e nei negozi, la donna che potesse essere il nostro personaggio. Abbiamo fatto un grande lavoro di improvvisazione. Ognuna di noi ha fatto in prova il personaggio delle altre. Ci abbiamo messo le mani da tanti punti di vista diversi. E poi abbiamo creato un gruppo bellissimo, umano e artistico. 

Per ognuna delle donne si presenta la questione di chi dei due abbia, a suo tempo, lasciato chi. Nel tuo caso la situazione è più sfumata. 

In realtà è sempre lui. All’inizio io dico che sono stata io a lasciare lui, perché formalmente lui si è fatto lasciare, ma è come se lui non fosse mai stato con lei, perché mentre stava con lei pensava all’altra. Quindi in qualche modo con lei era un passatempo. Ufficialmente lei ha chiuso la storia, ricorda la litigata sulle scale fatta di urla e cazzate simili. Ma ha chiuso perché in realtà non c’era più niente da prendere. L’idea di regia di Marcello Cotugno è che lei sia in qualche modo l’alter ego di lui, quella che più di tutte è un po’ lui al femminile. Una che passa di fiore in fiore. Una che vive un po’ superficialmente i sentimenti e le relazioni. Lui le dice “Soltanto con te mi sembra di riuscire a parlare” perché in realtà lui non si sente giudicato da lei. 

Lo spettacolo finisce con il gesto del nastro della cassetta del registratore che viene srotolato e poi riarrotolato. Non vi siete posti il problemi di attualizzare questa scena, anche se con i moderni registratori digitali sarebbe stato molto più difficile? 

Così è da testo. Questo testo non ha tantissimi anni. Labute ha scelto questa cosa. Forse lui usa un registratore così. In America figuriamoci se non c’erano già registratori più moderni. La traduzione è di Marcello Cotugno, il regista, e di Gianluca Ficca, ed è una traduzione che tiene anche conto del fatto che la stiamo facendo in Italia, quindi resta l’ambientazione americana, con quelle città, ma ci sono stati degli aggiustamenti per renderlo più fruibile al pubblico nostrano. Soprattutto dei rimandi a giornali o cose che potessero essere conosciuti anche da noi. Però il registratore è drammaturgicamente il classico registratore. Comunque lui è un personaggio anche un po’ hitchcockiano, inquietante. 

In effetti ha tutte le caratteristiche del thriller con un serial killer, con quella sorpresa finale. 

È un thriller perché lui è come se fosse un assassino dei sentimenti. Un mostro che si annida nei panni di un giovane normale, non troppo bello, gentile. Anche nel film Broken Flowers di Jim Jarmusch c’era una storia a ritroso di un uomo che andava a trovare le sue vecchie amanti. Quindi è un’idea che è venuta in mente a più d’uno. 

Hai lavorato più volte quindi su testi di Labute, un drammaturgo e anche regista cinematografico che si è focalizzato sul rapporto e lo scontro tra i sessi. Come lavori sulla sua scrittura? 

Lui è anche un autore molto attento alle dinamiche del potere fra gli esseri umani. Quasi come se la sua visione drammaturgica sia il potere e la partita vera che sempre si gioca tra le persone. I suoi testi mi piacciono moltissimo, li trovo perfetti. Anche quando ci sono delle elissi, che a volte alla prima lettura non capisci, ma poi in realtà se ti affidi esattamente alle parole che lui scrive, a un certo punto tutto torna. Perché lui è come se ti suggerisse anche i pensieri che ci sono tra una battuta e un’altra. Quindi è uno di quegli autori da recitare alla lettera. Anche se i suoi testi sono pieni di intercalare, di battute che apparentemente sembrano secondarie, che si potrebbe pensare anche di poter togliere. In realtà lui segue un filo logico molto chiaro. È come se ti raccontasse anche i pensieri, quindi ti facilita molto il lavoro. Al cinema ha fatto La società degli uomini che è il suo film più bello, la sua storia, il suo manifesto. Poi lo seguo più come autore teatrale, perché è chiaro che la sua prima vocazione è la scrittura. Come regista ha fatto cose fuori dal coro. Certamente non è una cinematografia commerciale, non è per tutti. Mentre i suoi testi teatrali riescono a essere per tutti. Questo Some Girl(s) è uno spettacolo per tutti. Naturalmente piace tantissimo alle donne, è uno spettacolo in cui le donne sono protagoniste. 

Nelle note di regia si parla di un debito verso il regista Eric Rohmer. In cosa è consistito? E ha influenzato il vostro lavoro di recitazione? 

Marcello Cotugno, quando abbiamo iniziato a provare, ci ha consigliato di vedere Il ginocchio di Claire che è un film di Rohmer, perché racconta un’ossessione amorosa, il personaggio di lui è un ossessivo. Lui reincontra queste quattro donne perché loro hanno avuto davvero un peso nella sua vita, altrimenti non le reincontrerebbe. Però allo stesso tempo non abbastanza da permettergli di essere sincero o da avere voglia di esserlo. Quindi è veramente come se lo spettacolo fosse giocato sull’ambiguità dei sentimenti: è vera una cosa, è vera un’altra. Ti voglio bene, però in fondo non mi va di stare con te, ti chiedo scusa però in fondo non mi importa veramente di averti fatto del male. Che poi è molto umano, rientra nella complessità umana che spesso neanche noi capiamo di noi stessi. 

Il personaggio è uno scrittore e anche una battuta di un’altra sua ex fa capire che si è ispirato alla storia della loro relazione. In fondo il protagonista è una metafora dello scrittore, che attinge dalla realtà fino cannibalizzare la propria vita, in questo caso in maniera cinica. 

Nel testo ci sono tantissimi rimandi, c’è una prima lettura che è quella dei rapporti interpersonali, però poi c’è questo, è la storia di uno scrittore, di cosa sarebbe disposto a fare uno scrittore pur di tirare fuori del materiale interessante, della vanità, lui fa tutto questo per Vanity Fair. Come se Vanity Fair fosse l’unico e il più grande obiettivo. 

Invece nell’altro tuo lavoro in tour in questo periodo, Tante facce nella memoria di Francesca Comencini, avete studiato le testimonianze delle partigiane per raccontare dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Come hai lavorato in questo caso? 

Si potrebbe definire un documentario teatrale, un’operazione unica nel suo genere, che ha un valore storico fortissimo. Francesca ha montato alcune interviste che alcune partigiane e alcune parenti delle vittime delle Ardeatine rilasciarono ad Alessandro Portelli, uno storico, negli anni Novanta. Lei le ha montate per creare un unico racconto fatto da queste sei donne, oltre a me Mia Benedetta, Carlotta Natoli, Lunetta Savino, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli. Siamo sempre tutte e sei in scena è come se fosse un unico monologo fatto da sei voci diverse che racconta i fatti di via Rasella, e poi la vendetta con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Uno spettacolo molto impegnativo, di cui sono molto orgogliosa di far parte, perché è uno spettacolo civile, ha una portata enorme. E ha avuto un coinvolgimento del pubblico pazzesco, incredibile. Perché è la storia del nostro paese e poi raccontata da un punto di vista femminile, che è un punto di vista ancora troppo marginale. Io nello spettacolo sono Marisa Muso, una partigiana, medaglia d’argento al valore militare, una donna che è stata molto attiva in politica anche dopo. Le partigiane donne erano queste ragazzine di vent’anni – Marisa Muso aveva vent’anni quando ha fatto l’attentato di via Rasella – e rischiavano veramente la pelle per la liberazione del nostro paese. È un messaggio che non vuole essere politico a tutti i costi anche di consapevolezza che si trasmette a chi ci guarda, anche ai più giovani. 

L’attentato di via Rasella è poi un episodio storico che ha dato luogo a un dibattito notevole. 

In realtà è stato voluto rendere controverso. La verità che poi viene spiegata nello spettacolo da chi quei giorni li ha vissuti – non è il punto di vista di uno storico ma di chi c’era in quei giorni – è che l’eccidio alle Ardeatine l’avrebbero fatto lo stesso. Era una rappresaglia. È un falso storico quello che i partigiani non si sono costituiti perché non è vero. L’attentato l’hanno fatto alle quattro del pomeriggio, il giorno dopo a mezzogiorno avevano già ammazzato tutti. Lo spettacolo è molto importante perché ci sono ancora i parenti delle vittime delle Ardeatine che non hanno mai superato il trauma. Come è successo a Roma, è successo anche in tanti altri posti. Abbiamo fatto lo spettacolo a Gubbio dove abbiamo scoperto che c’è stato un altro eccidio, nello stesso periodo, di cui non si è mai saputo niente. Non c’è stato un processo, non c’è stato nulla. È una cosa che fa parte della nostra storia. Non è passato così tanto tempo e soprattutto viviamo tempi storici in cui è molto importante ricordarsi cosa è successo, affinché non possa mai succedere di nuovo. 

In questo momento è in uscita il film La mia famiglia a soqquadro, del giovane regista Max Nardari, in cui interpreti il ruolo di madre. Di cosa si tratta? 

La storia è molto semplice. C’è questo bambino che inizia una nuova scuola prestigiosa in cui tutti i suoi compagni sono figli di genitori separati, quindi hanno doppi regali, doppia casa, doppie vacanze. E lui vorrebbe essere come tutti gli altri, cioè avere i genitori separati. Soltanto che i suoi genitori si vogliono bene insieme. Quindi lui mette in moto una serie di diavolerie per fare in modo che i genitori scoppino e ci riesce, salvo poi rendersi conto che quando una famiglia scoppia sul serio poi ci sono delle conseguenze non prevedibili. Quindi è giocato su cosa significa la normalità oggi. Oggi è più normale che ci siano delle famiglie separate piuttosto che delle famiglie tradizionali. Quindi chi ha una famiglia tradizionale può sentirsi un diverso. Tutto questo è giocato su una chiave molto ironica e anche surreale, perché ci sono anche degli elementi un po’ fantastici nel film. Poi è una commedia, si ride, sorride, ma basato sempre sul come è cambiato il concetto di normalità.

Nella tua filmografia spicca un rapporto continuativo con Ferzan Ozpetek. Come mai? Come hai lavorato con lui? 

È stato un incontro per me oltre che molto piacevole umanamente ma anche importante e significativo. Un regista con cui il lavoro è sempre molto facile e stimolante. È una persona dotata di grande intuito, con un bellissimo gusto estetico. Ancora prima di lavorare con lui, ero una sua ammiratrice. 

Lavori molto anche con registi al debutto, come mai? 

Anche ora al Bif&st di Bari verrà presentato un altro film, di un esordiente, Salvatore Allocca, che si chiama Taranta on the Road. In questi ultimi anni è capitato che abbia fatto molte opere prime, che è una cosa che mi piace molto. Mi piace naturalmente anche lavorare con dei registi che hanno un bagaglio d’esperienza, un’estetica già più chiara nella quale entrare. Però anche fare delle opere prime è bello, perché partecipi in qualche modo a un piccolo miracolo. Un regista che in Italia riesce a fare il suo primo film, veramente è un piccolo eroe, sempre. Solo per questo va appoggiato e sostenuto. E poi le due opere prime che ho fatto hanno avuto successo, Pecore in erba è stato in concorso a Venezia in Orizzonti, purtroppo non è durato molto nelle sale, perché ci sono delle logiche distributive molto particolari che mi sfuggono proprio, e non è che aiutino tantissimo i film. Lo stesso discorso vale per Short Skin di Duccio Chiarini, un film così, se fosse sostenuto dagli esercenti, è un film che avrebbe potuto guadagnare bene, perché è un film per tutti, un film che fa ridere, ha tante cose. Chiarini è un regista molto interessante, promettente. Infatti sta continuando. C’è sempre questo gap. Alla fine ci vuole sempre un po’ di fortuna. Era un film semplice da vedere. Pecore in erba invece è un film molto più complesso, tratta di un tema molto spinoso come l’antisemitismo, però lo tratta in maniera molto divertente, folle. La critica straniera ne ha parlato molto bene. Ci sono delle logiche economiche che schiacciano poi dei prodotti italiani di valore che sono più piccoli e chiaramente avrebbero bisogno di maggior spazio, sostegno, visibilità, un festival non basta. 

Figuri anche nel cast di Solino di Fatih Akın, indicata come nel ruolo di te stessa. Come mai? 

È stato il mio primo lavoro. Ho conosciuto Fatih Akın a Roma, ero una ragazzina, e lui cercava delle attrici di origine pugliese che facessero dei ruoli per questo suo film tedesco, in parte ambientato in Puglia. Un film che, fra l’altro, in Italia non è uscito ma in Germania è andato benissimo, ed è stato il film precedente di La sposa turca. Ho partecipato facendo me stessa, facevo questa ragazza in un piccolo ruolo. È stata un’esperienza molto carina perché lui è un vulcano. 

Mentre a teatro hai fatto anche una versione sul palcoscenico del film Clerks...

È stato il mio primo spettacolo che ho fatto a Roma, con la regia di Andrea Bizziccari che ora è un artista visivo e uno scultore piuttosto affermato ed era una rivisitazione del film di Kevin Smith, ebbe un grande successo, lo facevamo al Teatro Colosseo, quando c’era ancora, il luogo off storico di Roma, dove l’abbiamo fatto per più di un mese. Io amo molto la drammaturgia contemporanea, mi piacerebbe molto fare dei classici anche, ma il mio primo amore è per il contemporaneo. 

E invece risulta anche un tuo lavoro per il circo Togni. Di che si trattava? 

Risale all’alba di quando ho iniziato a fare questo lavoro e partecipai a un progetto speciale del Circo Togni in cui lavoravano anche degli attori, facevo Cappuccetto Rosso. Fu un’esperienza molto bella, il mondo del circo è un mondo pazzesco, di arte non vanesia, di arte legata al lavoro quotidiano, un lavoro in cui il ragazzino di tredici anni lavora quanto il comico di sessanta.   



  • Foto di Roberta Krasnig.jpg
    Foto di Roberta Krasnig.jpg
    archivio
    @ELENCOTAG@in scena
    cookie law
    privacy