La prima incursione nel panorama continentale la si è vissuta con l’ungherese Imitation of life diretto da Kornél Mundruczò su testo di Kata Wéber: di questo spettacolo ad impressionare non è tanto la componente drammaturgica, je accuse contro una società contemporanea le cui fondamenta sembrano essere discriminazione sociale e violenza, in particolare nel rapporto con quella componente "zingara" storicamente molto sentita in terra d’Ungheria, quanto il sapiente uso della contaminazione tra linguaggi espressivi, teatro di parola e video, che se certo non rappresentano un unicum nel panorama teatrale richiedono comunque sempre grande perizia e cura nella loro attuazione. Un modulo scenico che gira su sé stesso a trecentosessanta gradi non è frequente vederlo, e se l’impatto visivo è senza dubbio forte, non meno interessante è per lo spettatore italiano potersi confrontare con un’idea di teatro dalla recitazione dilatata nel tempo, con lunghe pause ben sostenute dal gruppo di interpreti: in cento minuti filati la finzione della scena più volte si mescola all’illusione del video per un ritratto, questo sì molto reale, di una società in perenne bilico tra legislazione non scritta, fondata su ingiustizia e prevaricazione, e modus vivendi legato a tradizioni ancestrali che portano nel presente a realizzare una sorta di "imitazione della vita", dimensione parallela in cui sembra essere più facile perdersi che ritrovarsi.
Dall’Ungheria ci si sposta in Spagna con The mountain, creazione di Agrupación Señor Serrano su drammaturgia e regia collettiva di Alex Serrano, Pau Palacios e Ferran Dordal: la performance come da prassi per il collettivo spagnolo, è un interessante melting pot di linguaggi, dal video all’installazione, che impressiona per la straordinaria capacità di utilizzo e di controllo del mezzo tecnologico. Come nel Birdie presentato alle Colline Torinesi un paio di edizioni addietro, anche The mountain indaga con strumenti autoptici alcuni aspetti del quotidiano, a partire dal concetto di verità. Il "pretesto" drammaturgico Serrano e compagnia lo trovano in due lontani fatti di cronaca la cui narrazione procede in parallelo in un contenitore mediatico che alterna il racconto della storia ad un sito web di fake news con il pubblico, osservato da un drone in stile grande fratello, costretto ad ascoltare le poche credibili tirate di Vladimir Putin in materia di fiducia e verità: da un lato il racconto della spedizione sull’Everest vissuta nei primi anni Venti con protagonista l’inglese George Mallory, scalata ricostruita nel carteggio con l’amata moglie Ruth prima che dello scalatore britannico si perdessero per sempre le tracce a duecento metri dalla vetta, dall’altro la ricostruzione del programma radiofonico The war of the wordls con cui Orson Welles seminò il panico attraverso finzioni ed invenzioni legate ad una fantomatica invasione marziana. Una scalata fisica ed una metaforica per raggiungere quella verità assoluta che per l’uomo ha sempre incarnato un prezioso stimolo: ma che cos’è la verità, un concetto assoluto, raggiungere il tetto del mondo in solitaria, o la pirandelliana "colei che mi si crede" che accompagna il racconto radiofonico di una narrazione capace di bloccare un’intera nazione? Partendo da questi due opposti la compagnia spagnola guida lo spettatore nella sua indagine, insieme di parole, immagini e suoni che interagiscono tra di loro nella definizione di un orizzonte dal percorso incerto e tutto da scoprire: ed allo spettatore che esce soddisfatto ma anche un po’ confuso non resta forse che orientarsi in quella "nebbia del pensiero" che, dopo aver compromesso l’impresa di Mallory e offuscato gli ascoltatori di Welles, ancor oggi condiziona il nostro agire quando indirizzato alla spasmodica ricerca del vero.
Ungheria, Spagna e poi Belgio con All the good scritto e diretto da Jan Lauwers: performance collettiva di teatro, danza ed arte visuale che si ispira ad un incontro avvenuto nel 2014 tra il regista belga ed Elik Niv, soldato israeliano dal passato in prima linea ed ora danzatore professionista: tra i due nasce una sorta di affinità elettiva risoltasi nel progetto sintesi di esperienza autobiografica e racconto fantastico. In scena prendono forma le storie dei due uomini, quella in apparenza anonima di Lauwers e famiglia ed il tormentato percorso di un veterano di guerra ora rinato a vita nuova, ma per nulla dimentico del sangue versato: trait d’union tra i due filoni la relazione tra Romy, disincantata figlia di Lauwers, e lo stesso Elik conosciuto durante un viaggio nella lontana Cina. Il racconto, a tratti molto provocatorio e nel complesso non sempre fluido e coinvolgente, procede per quadri con musica e video interagire con una parola accompagnata ad una ricorrente idea di morte e di speranza per un’opposta visione del presente che, ci suggeriscono Lauwers e compagnia, sembra essere in assoluto la costante del nostro quotidiano. Quale il nostro posto oggi nel mondo? Domanda delle domande cui si cerca di rispondere in cento minuti attraversati simbolicamente dalla proiezione/visione di numerose opere d’arte, da ultimo La discesa dalla croce di van der Weydens, pretesto per una rilettura della vita indirizzata alla piena comprensione di "tutto il bene" possibile.
Sempre in zona francofona, nella regione belga delle Fiandre, si rimane per All around con il batterista Will Guthrie e la performer Mette Ingvartsen protagonisti di una performance dalla durata inversamente proporzionale al contenuto adrenalinico: in poco più di venti minuti prende infatti vita, in uno spazio scenico neutro con il pubblico seduto all around, tutto intorno, una danza al ritmo incessante della batteria che Will fa letteralmente parlare in un crescendo di tonalità sempre più forti. Lato suo Mette, gambe lunghe e folta chioma bionda a rivelarne le origine danesi, è artefice di un’instancabile danza circolare con in mano una spada di luce a disegnare nello spazio azioni e movimenti. Occhi sempre aperti e sorriso stampato sulla faccia, la danzatrice scandinava impressiona per la crescente energia che trasforma la sua esibizione in una sorta di estatica trance al ritmo incessante delle percussioni per un concerto di suoni e movimenti tanto concentrato nel tempo quanto carico di eccitazione.
Il nostro viaggio nella ventiseiesima edizione del Festival delle Colline Torinesi. Torino Creazione Contemporanea si esaurisce con Borborygmus realizzato dai libanesi Lina Majdalanie, Rabih Mroué e Mazen Kerbaj, artisti in passato già apprezzati dal pubblico delle Colline: termine di origine medica, a significare un moto interno proveniente da addome ed intestino, il borborygmus è drammaturgia sonora che invade il nudo spazio scenico attraverso una babele di suoni e luci per la definizione di sequenze di teatro sonoro e visuale indipendenti tra di loro. Il sempre regolare ticchettio dei metronomi come il rumore di bicchieri che si rompono, una fisarmonica a scandire ritmo del respiro e battito del cuore, si ha l’impressione a tratti di vivere un viaggio nelle viscere del nostro corpo tra borbottii di varia natura ad accompagnare citazioni di persone morte come pagine di vita vissuta: sacro e profano, tragico e comico che si compenetrano nella rappresentazione, molto cruda e reale, di tutto ciò che nasce dal di dentro in un gioco di specchi che rende i tre applauditi interpreti a noi molto vicini nel loro porsi consapevoli e provvisori attori nella gran commedia della vita.
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