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Elena Dragonetti: intervista da New York
a cura di Valeria Di Giuliano
Dieci di Andrej Longo In Scena! a NY in un one-woman show firmato Dragonetti-Tagliabue, tratto dall'omonimo libro di Andrej Longo
I dieci personaggi della Napoli di Longo arrivano a New York, al festival In scena! Intervistiamo Elena Dragonetti che ci racconta come Dieci sia uno “spettacolo dentro al quale poter ritrovare una parte della propria fatica di vivere e forse, tra le righe, una possibile via di scampo”
Tratto dall’omonimo libro di Andrej Longo, tradotto in tedesco, francese e inglese, debutta a New York al Festival In Scena! Dieci, uno spettacolo che scandisce in dieci quadri i personaggi e le storie raccontati da Longo in una Napoli che diventa scenario universale. Dieci come i dieci comandamenti a cui ogni monologo è intitolato, dieci come i dieci personaggi che raccontano, attraverso la voce e il corpo di Elena Dragonetti, le loro storie, tra poesia, ironia e cruda realtà. Lo spettacolo è stato fortemente voluto da Elena Dragonetti, attrice, autrice e regista, diplomata alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova con numerose collaborazioni artistiche alle spalle (attori della compagnia di Peter Brook, Living Theatre, Compagnia francese Grand Bal di Parigi). La stessa Dragonetti firma anche la regia dello spettacolo insieme a Raffaella Tagliabue, attrice e regista che lavora dividendosi tra gli Stabili di Genova e di Torino, il Teatro della Tosse di Genova e il Teatro della Contraddizione di Milano. La produzione è Narramondo (Genova), associazione che nasce nel 2001 con l’esigenza di portare in scena un teatro civile che racconti le “ferite del tempo presente”. Lo spettacolo inoltre ha vinto il Premio Calandra 2014 (Migliore spettacolo, Migliore regia, Migliore attrice) e ha ricevuto la Menzione Speciale al Festival Storie di Lavoro 2015.

Com’è nata l’idea di questo spettacolo?

Mi è capitato per caso di trovare in libreria Dieci di Andrej Longo, pubblicato in Italia dalla casa editrice Adelphi, e ne sono stata rapita. Oltre ad essere scritto con grande sapienza, con una capacità nel tratteggiare i personaggi che permette in poche pagine di entrare nella loro intimità, e con uno sguardo acuto nell’osservare e descrivere la realtà che circonda l’autore, Dieci è un testo di narrativa che sembra essere scritto appositamente per il teatro. Mentre lo leggevo non potevo fare a meno di interpretarlo ad alta voce o di leggerne dei pezzi ad amici. Un’altra caratteristica che amo in Dieci è la capacità dell’autore di restituire in una dimensione tragica la realtà drammatica, a volte anche melodrammatica, che caratterizza e spesso definisce la città di Napoli. L’ironia tipicamente popolare che accompagna e attraversa tutta la narrazione, l’apparente ineluttabilità dei destini, il contrasto tra necessità e libertà, permettono al linguaggio di uscire dal dramma e di trasformarsi in tragedia contemporanea. Quando ho iniziato a pensare di farne uno spettacolo il primo dubbio era legato alla presenza dei dieci personaggi. Inizialmente ho immaginato di farlo con altri nove attori ma sarebbe diventato uno spettacolo molto meno agile da far girare e forse meno interessante; ho pensato di farlo in due, un’attrice e un attore, e dividerci i personaggi maschili e i personaggi femminili, ma c’erano personaggi maschili a cui mi ero già affezionata e che mi sarebbe piaciuto portare in scena personalmente, e ad un certo punto ho dovuto ammettere di essermi già legata a tutti i personaggi del testo, e che avrei voluto interpretarli tutti, ma non per presunzione, perché mi sembrava che ognuno di loro parlasse ad una parte e di una parte di me.

Dal libro al palco. Che processo hai seguito?

Quando ho deciso di farne un monologo ne ero piuttosto spaventata perché era la prima volta che facevo uno spettacolo completamente da sola e devo ringraziare tre persone in particolare che mi hanno incoraggiato ad andare avanti. A quel punto non restava che chiedere i diritti all’autore. La prima volta che ho scritto ad Andrej lui, mi ha poi raccontato a distanza di tempo, ha pensato: “Ma come fa un’attrice di Genova ad interpretare dei personaggi napoletani? Che ne sa di questa realtà? Non ci penso neanche!” e mi ha risposto che i diritti del libro erano bloccati in altri progetti e che non poteva concedermeli. Ci sono rimasta male ma ho accettato il rifiuto, non avendo alternative. Qualche anno dopo mi è stato chiesto di fare una lettura nei vicoli del centro storico di Genova e io ho scelto di leggere un capitolo di Dieci molto vicino alla vita dei vicoli. La lettura aveva colpito molto il pubblico e a me era tornata una voglia matta di lavorare su quel testo e farne uno spettacolo. Ho quindi riscritto ad Andrej chiedendogli ancora il permesso di mettere in scena il suo testo. A quel punto lui ha pensato che se a distanza di tempo il mio desiderio era ancora così forte e i miei pensieri artistici ancora legati al suo libro, forse sarebbe stato il caso di concedermi di farlo e così è stato. Quello che Andrej non sapeva è che non sono originaria di Genova ma di un piccolo paese a 40 minuti da Napoli, che sono scappata da quel paese e da quel modo di vivere, dall’arroganza e dalla prepotenza di quelle realtà e per molto tempo ho cercato di prenderne le distanze, ma quando ho incontrato Dieci è stato come, dopo tanto tempo, ritornare a casa.

Il festival InScena! permette a compagnie italiane di esibirsi in un contesto americano. Attraverso quali mezzi secondo te è possibile diffondere efficacemente il teatro italiano negli USA?

Penso che il Festival In Scena! renda un servizio importante al teatro italiano offrendogli uno spazio nella scena teatrale statunitense. Credo sarebbe interessante avere anche l’occasione di incontro e scambio con realtà artistiche statunitensi, il conoscere cosa accade artisticamente in contesti differenti geograficamente e per alcuni aspetti culturalmente penso possa essere una grossa ricchezza. Un’ulteriore occasione sarebbe quella di poter avere a disposizione un periodo più lungo per tenere in scena gli spettacoli. Credo comunque che uno dei meriti del Festival In Scena! sia anche quello di rivolgersi al panorama teatrale italiano indipendente, luogo al momento molto ricco di ricerca e sperimentazione, oltre che di passione ancora vibrante.

È la prima volta che porti uno spettacolo negli Stati Uniti? Cosa significa per te essere a NY e soprattutto andare in scena in questa città?
Si, è la prima volta che porto uno spettacolo negli Stati Uniti e sono molto felice di farlo. New York è una città affascinante, ricca, poliedrica e far parte della sua scena culturale e teatrale è un onore. E comunque essendo New York non affatto estranea alla cultura italiana, che è intrecciata nelle sue fondamenta e nelle pieghe della sua identità, mi sembra abbia un senso importante poter portare qui una parte del panorama culturale e teatrale italiano”.

Cosa pensi o speri di riportare in Italia dopo quest’esperienza, sia dal punto personale che professionale?

Ogni volta che si porta il proprio lavoro in un contesto differente da quello in cui si è abituati a lavorare si arricchisce il proprio percorso e sono sicura che questo viaggio a New York e il confronto con il pubblico statunitense saranno non solo una ricchezza ma anche l’occasione per delle riflessioni nuove e magari la nascita di nuove strade di ricerca per me. Inutile poi negare che mi piacerebbe nascessero nuove occasioni per tornare a lavorare e portare i miei lavori negli Stati Uniti.

Perché questo spettacolo è da vedere? Cosa pensi o speri di lasciare al pubblico newyorchese?
Questo spettacolo è da vedere perché con il pretesto di raccontare Napoli, città amata, odiata, denigrata, esaltata, comunque città che non lascia indifferenti, Andrej Longo racconta di un’umanità dai caratteri universali, un’umanità nella quale rispecchiarsi e attraverso la quale perdonarsi, personaggi alle prese con una realtà più grande di loro e a confronto con un Dio a volte assente. È uno spettacolo dentro al quale poter ritrovare una parte della propria fatica di vivere e forse, tra le righe, una possibile via di scampo. Si parla di quella speciale spinta alla sopravvivenza che in napoletano si chiama “pacienza”, una parola che mette insieme la voce “patire” con quella del darsi “pace”. Non è una rassegnazione, ma il più alto stato civile dell’esperienza, “una santità di marinai in terra che sanno dormire nelle tempeste”, ed in questo sono sicura che in molti ci rispecchiamo. Non solo, Dieci è uno spettacolo che è nato con la fatica, le difficoltà e i salti mortali delle produzioni indipendenti. È uno spettacolo che se non avesse avuto come motore una forte necessità, un amore, una passione, un desiderio viscerale di portare in scena e in giro questa storia, non sarebbe neppure nato. In effetti, quando si è pensato a questo progetto non eravamo nelle condizioni di produrlo. Ma la voglia di metterlo in scena era tale che abbiamo iniziato a cercare le occasioni per raccontare a più persone possibili il nostro lavoro e per chiedere un sostegno a questo progetto. È così che è nato il crowdfunding attraverso la piattaforma di Produzioni dal basso. Oltre un centinaio di persone hanno colto il nostro appello, si sono appassionate al progetto e di fatto l’hanno co-prodotto. E sono convinta che anche questo faccia parte del valore dello spettacolo. Quello che spero è che anche il pubblico newyorchese possa appassionarsi e affezionarsi a Dieci come è successo al pubblico italiano. Gli spettatori di Dieci sono ormai i nostri miglior promotori, ogni volta che Dieci si sposta da una città all’altra sono loro a promuovere lo spettacolo contattando tutti quelli che conoscono, e non, nelle varie città ed invitandoli a venire a vedere lo spettacolo. Questo per me fa parte dei successi di Dieci allo stesso modo dei premi ricevuti. Quello che mi piacerebbe che restasse al pubblico newyorchese è la sensazione di aver ascoltato una storia che parla alla parte intima di ognuno di noi e che mentre ci fa sorridere, ci commuove, e mentre sembra non lasciarci via di scampo, ci accompagna con una dolcezza, una tenerezza e una poesia inaspettate, verso la ricerca di possibili vie di uscita.

Dieci storie, dieci personaggi, distinti e differenti. Qual è il filo conduttore che lega i personaggi tra loro?

Ogni storia è intitolata a uno dei dieci comandamenti. Il contrasto tra il comandamento sceso dall’alto e la cruda realtà delle storie crea uno stridore che determina e definisce l’anima tragica del testo. È a tratti straziante vedere la solitudine di questi personaggi alle prese con situazioni più grandi di loro e sotto lo sguardo assente di un Dio che è altrove. Ma allo stesso tempo non possiamo che essere dalla parte di questi uomini, donne e bambini impegnati in una lotta impari e non possiamo fare a meno di legarci intimamente a loro.

Durante lo spettacolo impersoni 10 personaggi molto diversi tra loro, come ti sei preparata dal punto di vista tecnico e attoriale?
La difficoltà all’inizio era nel dover interpretare e attraversare personaggi di sesso e età differenti. C’è un ragazzo di 17 anni, due uomini maturi, un ragazzino di 13 anni, una ragazzina di quasi 14, una donna di 43 anni, due ragazzi tra i 20 e i 30, un padre con un figlio, una mamma con una figlia che sta per sposarsi. Abbiamo quindi avuto bisogno di definire e delineare il più precisamente possibile il mondo di ciascun personaggio, il suo immaginario, la sua fisicità. Quindi abbiamo lavorato affinché quella fisicità si insinuasse nel mio corpo morbidamente senza sfociare in caratterizzazioni troppo marcate ma tenendoci saldamente agganciati alla semplicità e alla verità con cui sono disegnati i personaggi. Abbiamo fatto in modo che fossero l’immaginario e la storia di ciascun personaggio ad adagiarsi sul corpo e a modificarlo. È sicuramente un’esperienza interessante oltre che molto divertente da un punto di vista attoriale quella di passare e attraversare personaggi così diversi nell’arco di un unico spettacolo.

Articolo pubblicato su La Voce di New York
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