Uno spettacolo complesso, “alto”, con l’ambizione di raccontare un mondo mosso da superstizione e ritualità, in cui Macbeth e l’attore che lo interpreta trovano un reciproco corrispettivo nell’assumersi la responsabilità di “stare in una libertà spaventosa, sentire oltre il sentire, vedere e mostrare ciò che non c’è” (così le note di regia). E anche eventualmente di fallire. “Macbeth aut idola theatri” attinge al testo shakespeariano, ma anche ad altri autori, e indica negli idola theatri del sottotitolo i mondi fittizi creati da false credenze, e allo stesso tempo – metafora nella metafora - l’illusione teatrale che l’attore costruisce, affronta e vive sulla scena. Un paradosso affascinante, tradotto visivamente in immagini suggestive, evocative, seducenti, sospese nelle luci create da Giacomo Cursi. Da vedere e rivedere, per esplorarne le sottili implicazioni, i riferimenti, le molteplici letture possibili.
Abbiamo incontrato Dalila Cozzolino in occasione della prima romana (AP Teatro, 14 marzo 2019) per farci raccontare il percorso artistico alle spalle di questo suo ultimo lavoro. Un approccio dichiaratamente diverso, a partire dalla premessa: “Il punto è che io non voglio raccontare la storia di Macbeth. La racconto solo fino al momento in cui il suo fallimento inizia a coincidere con la possibilità di rintracciare altri fallimenti.”
Perché Macbeth rimane nel titolo, se il focus è altro?
Perché Macbeth è l’occasione. L’ho riletto ed ha iniziato a suonare in modo diverso, mi sono soffermata molto sulla profezia: una persona che non hai mai incontrato ti dice “devi diventare re” e a te cambia completamente la vita. Ho visto l’inizio di una dimensione performativa nella vita di Macbeth, che dalla profezia comincia a interpretare la realtà. Fa quello che fa un attore: comincia a vedere oltre il visibile e a sentire oltre il sensibile, e quindi a mostrare quello che non c’è. E’ lui che fa apparire quello che non c’è, i fantasmi. Forse forzando un po’ la cosa ho iniziato a vedere in Macbeth il lavoro dell’attore. Carmelo Bene diceva che “Macbeth e Lady Macbeth vestono e svestono umori per tutta la piéce”, ed è vero. Ma per l’attore non esiste solo la dimensione artigianale, c’è anche una illuminazione intellettuale in lui, lo stare in una dimensione completamente diversa. Da qui l’idea di mostrare tutti gli altri personaggi come stati di coscienza di Macbeth stesso. I primi ad apparire, sono gli altri personaggi, ancora vivi, non gli spettri. E il primo personaggio, il Portiere, li fa entrare nella testa di Macbeth.
C’è anche un sottotiolo…
Si riferisce alla filosofia, Bacone parla di part destruens, indicando negli idola, cioè nei pregiudizi della mente, ciò di cui ci dobbiamo liberare per raggiungere la conoscenza. Gli idola theatri in particolare sono quelli capaci di creare mondi fittizi. Insomma, Macbeth nel titolo c’è perché è l’occasione per un attore di fare l’attore, di entrare totalmente in uno stato altro. Il che implica anche la possibilità di fallire: rispetto alla vita, sul palco ancora si può perdere, lasciando che gli altri vedano il mio fallimento. E infatti nel mio testo l’attore è sempre presente in prima persona sul palco accanto ai personaggi, soprattutto nei momenti in cui gioca con le emozioni. C’è il personaggio e l’attrice che fa.
Non è di immediata comprensione questo giocare su due piani, non è facile per chiunque riconoscere l’attore che lavora in scena, accanto al suo personaggio…
E’ vero, ma alcuni indizi sono evidenti, e poi lavorando molto con le immagini, mi piace che il tutto resti un po’ criptico, lasciando il pubblico libero di decidere cosa vedere in un quadro. E io ne sento il respiro, la partecipazione emotiva.
Hai curato meticolosamente tutti gli elementi scenici: suono, luci…
Si, suono e le luci sono ingredienti fondamentali, insieme ad una serie di invenzioni teatrali, come il coltello che racconta da testimone oculare la strage, oggettivizzandone la narrazione. Anche sul suono ho lavorato molto, a partire dai colpi ritmati che ottengo con scarpe celtiche, in ghisa. E ovviamente sulle luci, che vestono il corpo dell’attore e mettono in evidenza alcune sue parti. Il mostrare alcune parti isolate dal resto è spesso accentuato, perché il corpo non mente mai.
Di chi sono poetici testi a cui attingi?
Fusi con Shakespeare (non solo Macbeth), ci sono un piccolo brano di Emily Dickinson, Carmelo Bene e alcuni miei pezzi originali. C’è anche un brano shakespeariano in particolare, che ho voluto ritradurre i versi rendendo una ritmica il più possibile vicina all’originale. Anche perché per un attore spesso è difficile mettersi in bocca le parole dei traduttori.
Perché Macbeth, oggi?
Banalmente l’occasione nasce dal fatto che cercavo un monologo e ho iniziato a lavorare sulle tre streghe. Quindi ho riflettuto su fatto che nel momento in cui qualcuno che non hai mai visto ti dice una cosa, può cambiarti totalmente la vita, ma solo se lo decidi tu. Non c’è nulla di veramente magico, se non il mestiere. Nel mio caso quello dell’attrice: io mi sono detta “voglio lavorare su Macbeth, come ci lavoro e dove fallisco?” Anche Lady Macbeth appartiene alle mie vicissitudini recenti, da cui ho capito che nella solitudine estrema si può essere terribili.
Un lavoro completamente diverso dai tuoi precedenti, sempre mossi da urgenze sociali.
Si, anche se il tema del potere è sempre presente. Qui nella possibilità di perderlo. E nel fatto che è effimero. Come il teatro: è “il racconto di un idiota narrato con strepito e furore, che non significa niente”. Come la vita. E c’è anche un’idea di potere in quanto demistificatore, ma non era mia intenzione forzare una lettura per andare incontro a temi politici e sociali. Qui c’è soprattutto un potere che implica l’impossibilità di fallire, un’arroganza che non lascia spazio al respiro.
Il Premio Hystrio e il trasferimento a Milano hanno aiutato la tua carriera?
Il Premio si, ma solo a livello personale. E’ stata una conferma importante, del fatto che posso fare questo mestiere. Milano è un ambiente diverso, si rintraccia un’immediatezza professionale rispetto a Roma, dove mi sembrava quasi che l’ambiente professionale si coalizzasse per una auto delegittimazione. Il confine tra il professionale e il non professionale è labile, soprattutto per alcune dinamiche. A Milano c’è invece molta professionalità, ma è anche un ambiente piuttosto chiuso, fatto di realtà formate che difficilmente si aprono.
A che cosa stai lavorando ora?
Ora sto collaborando con Favola Folle, nella periferia milanese, a un progetto sulla prostituzione, sviluppato grazie ad un bando della Fondazione Cariplo a partire da uno studio realizzato affiancando un’associazione assistenziale. Dopo incontri e interviste con molte prostitute ho scritto un monologo, riunendo tutte le ragazze che ho incontrato in un unico personaggio. Ne è nato “No body”, una performance itinerante di 5 attrici, per 20 persone alla volta, che ripetiamo 8 volte al giorno. E’ un lavoro molto impegnativo, non noioso, in cui si ha una vicinanza estrema con il pubblico, e si empatizza molto con gli spettatori, portandosi a casa anche le loro emozioni.
Un approccio ancora diverso, dunque. Al di là del tema e della storia, cosa si porta via idealmente uno spettatore che viene a vedere i tuoi lavori?
Per me il teatro è un posto dal quale, sia chi lo fa, sia chi lo vede, deve uscire rivoluzionato, cambiato. Non saprei dire che tipo di rivoluzione interna, ma una sovversione. In Macbeth c’è un lavoro molto intimo che ciascuno dovrebbe fare su sé stesso, sull’illusione e sull’accettazione della possibilità di perdere. In generale quello che tento di fare è che una persona capisca la qualità di tempo, il fatto di non averlo perso, senta che quello dello spettacolo sia stato un tempo utile, dedicato a sé stesso.
Macbeth aut Idola Theatri