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Recensione di: Ficcasoldi
Testo coraggiosamente esplicito e fin troppo didascalico, portato in scena con ottime trovate teatrali.

Quello di ficcasoldi è un lavoro riconosciuto: è il compito di ricicla il denaro della ‘ndrangheta giocandolo nelle slot machines illegali (quelle, cioè, non collegate al monopolio dello Stato). Un lavoro pagato profumatamente, se non fosse che l’ “impiegato”, affetto da ludopatia allo stato terminale, giochi, perdendolo, anche l’intero suo stipendio.
Uno spaccato inquietante, che getta nuova luce sul bar sotto casa e sull’amichevole barista che lo gestisce. Una storia tanto nota quanto sconvolgente, che si svolge ogni giorno negli angoli di tutta l’Italia. Intorno altri mille riferimenti ad un mondo in cui l’illegalità serpeggia alla luce del giorno, svilendo e svendendo il paese, a partire dalle targhette sui vestiti made in Italy, che rivelano invece una provenienza - e una qualità – di tutt’altra parte del mondo.
E’ l’Italia gestita dalla mala organizzata ed efficiente, la realtà raccontata da Saviano, conosciuta ufficialmente da chi abita il profondo Sud e ufficiosamente dall’intera geografia del nostro paese. Il teatro civile di Rosario Mastrota la ritrae in una trilogia di cui fa parte questo testo privo di retorica (con “L’Italia s’è desta” e “Panenostro”), coraggiosamente esplicito e fin troppo didascalico.
Lo spettacolo si avvale di attori giovanissimi, che promettono bene pur ancora mancando a tratti della giusta disinvoltura. La scrittura scorre, anche se “dice” un po’ troppo, lasciando che le parole sovraccarichino le suggestioni teatrali. Ottime invece alcune trovate visive, come la slot antropomorfa e i jingle su fermo immagine, che spostano il piano del racconto su un'amara ironia. Mostrando accanto alla patologia conclamata un intero paese che ostinatamente ignora in sé i sintomi dello stesso male e quelli, ben più gravi, della passiva accettazione di una fine annunciata.
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