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Per un teatro popolare d'arte: intervista a Veronica Cruciani
In scena al Teatro Carcano di Milano con Due donne che ballano, protagoniste Arianna Scommegna e Maria Paiato, Veronica Cruciani si conferma come una dei protagonisti del teatro italiano contemporaneo, collezionando successi di pubblico e di critica. Storia dell’incontro di due solitudini femminili, di due donne diverse, che hanno subito il peso della vita, che trovano un punto di contatto e un equilibrio, lo spettacolo sarà poi in scena al Teatro India di Roma.
Abbiamo chiacchierato, di questo suo lavoro e del suo modo di concepire il teatro, con Veronica nel foyer del  Carcano.

Come sei arrivata al drammaturgo spagnolo Josep Maria Benet I Jornet, che mi risulta inedito nell’editoria italiana? Hai dovuto quindi fare tradurre il testo ad hoc?
Mi è arrivato già tradotto da Pino Tierno. È un autore molto famoso in Spagna, considerato il padre del teatro catalano. Mi è arrivato in occasione di una rassegna a Roma, “In cerca d’autore”, per fare conoscere i testi di drammaturgia contemporanea. In generale leggo tantissimi testi di drammaturgia contemporanea, sia italiana che straniera, sono sempre in cerca di testi interessanti. Ne ho letti tanti, è raro che me ne piaccia qualcuno, ma questo mi aveva colpito. Avevo fatto tre anni fa una lettura di quest’opera. E quando l’ho letto mi sono venute subito in mente Maria Paiato e Arianna Scommegna. Arianna ha fatto la Paolo Grassi con me, ho già lavorato con lei [in La palestra, n.d.r.">. Maria l’avevo vista tante volte in teatro e l’ho contattata. C’è stato poi questo iter che è durato tre anni prima di arrivare alla produzione. In questo testo mi hanno colpito tre cose. I personaggi femminili. Io sono sempre alla ricerca di personaggi femminili che non siano banali, stereotipati. Ma questi sono personaggi che hanno tante sfaccettature, sono spigolosi, forti, vitali ma anche con una grande fragilità. Quindi questa complessità è interessante per me che lavoro sulle sfumature e i dettagli dell’anima. Mi piace entrarci chirurgicamente. Poi c’è la differenza di linguaggio dei personaggi. L’anziana legata alla memoria, la giovane con questo suo usare solo dei monosillabi e il fatto che a un certo punto del testo questa cosa si capovolge. Questa è una cosa inaspettata, interessante. E poi questo è un testo che racconta una storia piccola, quotidiana. Non sta raccontando un fatto così importante. Però questa storia tocca qualcosa di molto antico che riguarda un po’ tutti. Riguarda la solitudine, il sentirsi diversi, il sentirsi rifiutati all’interno di una società. Secondo me non è un testo che ha delle pretese dal punto di vista intellettuale. È un testo che racconta più su un piano umano. Ieri alla prima milanese la gente era commossa.

Ci sono nel testo anche delle punte ironiche, delle parti che fanno ridere o sorridere. Anche nel momento finale che pure è molto drammatico. Come avete lavorato su queste? Avete cercato di enfatizzarle?
Mi piace molto questa cosa, come ci si arriva. È una cosa che abbiamo cercato di costruire noi, comunque il testo te la suggerisce. A questa morte in un modo che non è triste. È una rivincita che si prendono sul mondo. Per questo ballano, mentre stanno per morire, accendendo la radio. E non solo perché ballano, anche nel modo cui ci arrivano. Come se dicessero «Al diavolo tutti e tutto!» . Sono anche tenere in quello che dicono. «Sembrerà chissà cosa», «Finirà sui giornali». Delle persone che, come dice l’anziana, non si sono mai sentite al centro dell’attenzione di nessuno. Quindi vedono questa cosa con uno sguardo un po’ naif. Sono due personaggi comunque semplici. Hanno una differenza culturale. La giovane è un’insegnante di letteratura, l’altra è una che non legge mai a parte questi giornalini, ha un’estrazione più bassa.

Se il teatro fosse più sotto i riflettori dei media, se fossimo al cinema o in televisione, questo suicidio finale avrebbe scatenato sicuramente le solite polemiche sterili, di chi travisa facilmente. Avrebbe potuto essere letto come un’esaltazione del suicidio. Hai pensato a questa eventuale reazione, del pubblico o della stampa?
I
o ci ho pensato a questa cosa che dici e mi sono data una risposta: che è una storia che stiamo raccontando. Non deve essere presa come un inno a qualcosa perché non lo deve essere. Se uno la interpreta in quel modo snatura lo spettacolo. A queste due donne capitano queste e cose e compiono una scelta, che è una scelta possibile. Piuttosto che finire in un ospizio, per l’anziana, e trascinarsi in una vita che non vuole ed essere infelice, preferisce morire. La donna giovane piuttosto che rimanere ossessionata dal pensiero del figlio, non riesce a svoltare nella propria vita, a darle un senso dopo quella morte. Un genitore dopo la morte di un figlio può non farcela. Decidono di morire. Chiaro che il morire ha sempre una drammaticità tanto è vero che io alla fine la cosa che dico sempre a loro due è: «Ricordate che questo momento è anche leggero perché per voi è una rivincita su tutte le ingiustizie che avete subito, ma è anche un momento molto drammatico per voi. Ci deve essere una grande tensione. Dovete cercare di mettere insieme queste due cose». Però penso che sia importante prendere questa storia come una storia possibile, non farla diventare come un manifesto a favore di. Ci ho pensato lavorandoci sopra, non ci puoi non pensare. Perché alla fine questo gesto che loro fanno ha un impatto, ho visto, sul pubblico molto forte. Questo spettacolo ha una natura tragicomica, ho molto lavorato perché lo fosse. Quello che fa ridere è il rapporto tra loro due. La mia regia è consistita soprattutto nel lavoro relazionale tra loro due. Creare questa relazione, far vedere come si sviluppa, far vedere come parte, da un conflitto molto acceso, che poi diventa un’amicizia e un amore. Un amore madre-figlia. Un amore genitoriale quasi. Questo è stato un grossissimo lavoro e per farlo ho dovuto lavorare sull’ascolto tra le due attrici, sulla relazione tra loro. Sul fatto che si parlassero veramente, che reagissero l’una con l’altra. Questo è stato il grosso lavoro con loro due che sono due attrici straordinarie. Per un regista è una fortuna lavorare con due attrici così.

Arianna Scommegna e Maria Paiato sono due grandissime attrici, ma hanno diverse impostazioni e sono legate tendenzialmente a forme di teatro diverse. Il loro avvicinarsi come lavoro di recitazione è stato in qualche modo funzionale a creare l’incontro in scena tra i loro personaggi, pure diversi per carattere, età, istruzione?
L
oro hanno una formazione completamente diversa. Nelle prove è uscito fuori. Due approcci al teatro, alle prove sicuramente differenti. Però come persone, come donne hanno una similitudine su alcune cose. Questi due personaggi hanno qualcosa di simile tra loro per questo si incontrano. Sono donne con un carattere forte ma hanno anche una delicatezza molto bella. Un’emotività molto bella. Una capacità di emozionarsi ed emozionare molto forte. Mi è capitato di vedere spettacoli dove c’erano dieci attori provenienti da contesti teatrali diversi, chi dal teatro contemporaneo, chi da quello classico più convenzionale. Non funzionano. Fai davvero fatica a quel punto. Nella diversità di formazione, come in questo caso perché loro due hanno anche delle esperienze lavorative diverse, è importante – e questo solo il regista può farlo – che poi si trovi un punto in comune. Nel momento in cui vai a fare quello spettacolo trovi uno stile che sia uno, che sia quello. In questo abbiamo lavorato. Loro nonostante la differenza di formazione sono due attrici che umanamente hanno una grande capacità di entrare nelle cose. Una grande generosità, una grande verità e io ho cercato di lavorare molto su questo, sul cercare di rendere autentica la loro interpretazione. Di valorizzare questi loro aspetti, queste loro ricchezze, potenzialità. Nel passare da aspetti di durezza, di ironia, delicatezza; da aspetti più comici ad aspetti più tragici. Il personaggio di Maria permette di più una comicità, ma entrambe hanno, come attrici, sia delle corde drammatiche che delle corde comiche. Riescono a lavorare su entrambi i registri, anche se siamo abituati a vederle di più in ruoli drammatici. C’è stato questo lavoro che ho fatto, dove questa differenza era evidente. Però poi se togli questo e vai all’essenza di loro come persone e chiedi di mettersi in gioco, ti accorgi di come in verità come attrici siano molto simili. Al di là della formazione. E questi personaggi sono così, partono da una distanza e poi trovano una vicinanza. Nell’essenza di quello che sono. Quindi forse quello che abbiamo fatto in teatro non è così lontano da quello che succede nello spettacolo. Poi io ho un modo di lavorare dove il teatro e la vita si assottigliano. Ho visto gente che piangeva tra il pubblico.

Nella scenografia, che rispetta l’unità di luogo della casa, ci sono due stanze. Ma l’azione si svolge tutta in una di queste, l’altra non è quasi mai agita, fino al finale. L’impressione è che questa sia una stanza metaforica.
Sì, è vero. Nel senso che il testo si ambienta in una casa e quella è la casa. Però ho ragionato, insieme alla scenografa Barbara Bessi, ma anche con Gianni Staropoli che ha curato il disegno luci – lavoro insieme a loro e a Paolo Poletta che ha fatto le musiche da diversi anni – si ragionano insieme luci e scenografia, che è vero che doveva essere una casa ma doveva anche avere qualcosa di astratto. Di non fortemente realistico. Doveva essere riconoscibile come idea di una casa, dar l’idea di una casa, di quella che era stata in passato una bella casa e poi col tempo si è invecchiata, rovinata. Come quelle case che quando entri vedi che venti-trenta-quarant’anni fa erano delle belle case, e poi col tempo si sono come rovinate. Quella era l’idea. Ma non doveva avere un aspetto troppo realistico, anche nei colori che abbiamo scelto, anche per riuscire a lavorare con le luci anche in maniera pittorica. Perché nelle transizioni tra un atto e l’altro ci siamo ispirati a quadri di Edward Hopper, ai suoi colori, alle sue solitudini. Addirittura abbiamo lasciato questo spazio vuoto in alcuni momenti, il fondale è verde, la finestra è blu. Le dimensioni della scenografia non sono realistiche. C’è una vetrata che non potrebbe esserci in nessuna casa, o la finestra nell’altro spazio che è gigantesca. Quindi le dimensioni sono alterate sempre per questo motivo. E l’altro spazio ho scelto di non praticarlo mai per riservarlo al finale, dove loro ballando attraversano questo buio. E poi questa luce bianca che arriva da questa finestra indica come un passaggio nell’aldilà, in un altro mondo, è come se fossero già morte quando passano nell’altra stanza. È proprio uno spazio altro, così è stato pensato. Tanto è vero che non è mai illuminato. La luce è sempre dove loro recitano e parlano e quello spazio è illuminato solo alla fine. Con questa luce bianca che arriva da questa finestra.

[B">Nella tua carriera di regista hai messo in scena solo autori contemporanei, mai classici. Come mai?
Mi piace, mi diverte e appassiona raccontare storie che nessuno ha mai raccontato, storie inedite, nuove. Penso che sia importante fare drammaturgia contemporanea. Sono testi che ci riguardano da vicino, perché la drammaturgia contemporanea deve essere un organismo vivente, qualcosa a che fare con il tempo presente, con i suoi problemi, con i suoi punti di crisi e con i suoi desideri. Qualcosa di vivo. Quando lavoro con i testi contemporanei, mi sento a contatto con questa cosa. Con il tempo che sto vivendo, con i problemi che ci sono. Con i temi che mi riguardano, il lavoro, l’immigrazione. Insisto anche se è difficile essere prodotti quando proponi un testo di drammaturgia contemporanea, tanto è vero che io ci metto molto tempo a fare delle regie e non perché non mi piaccia farle. Nella mia carriera ho fatto una regia ogni tre anni. Sono stata lenta perché far produrre testi di drammaturgia contemporanea è difficile. La gente non li produce. Ti chiede il titolo, ti chiede Pirandello, Goldoni. È difficile ma io sono una persona molto cocciuta.

Per questo hai voluto fondare una tua compagnia, che porta appunto il tuo nome?
Avevo una compagnia perché io sono nata come attrice, recitavo nei miei spettacoli in cui curavo anche la regia. Negli ultimi anni mi sto dedicando quasi esclusivamente alla regia proprio perché è molto difficile stare dentro e fuori uno spettacolo. In questo momento mi appassiona di più la regia quindi mi sono messa a studiare questo per tanto tempo. Questa compagnia adesso c’è ancora ma non è una compagnia in senso classico, come potrebbe essere l’Atir, per cui ho degli attori di riferimento. È quella con cui ho prodotto tutti i miei primi spettacoli, Il ritorno, La palestra, Ballare di lavoro. Tutti prodotti da me. È stato uno strumento per autoprodurmi, per fare le cose che amavo fare nel modo che volevo. Adesso sono anche prodotta dal Teatro di Roma con il Preamleto, un testo di Michele Santeramo che andrà a marzo al Teatro Argentina. Sono prodotta da altri teatri ma il mio modo di lavorare non cambia. Continuo a scegliere testi che mi appassionano. Se non mi appassiona un testo non lo posso mettere in scena. È il mio punto di partenza. La storia mi deve toccare, riguardare, emozionare. E deve avere anche un punto di interesse con il momento storico e politico che stiamo vivendo.

Puoi parlarci allora di questo nuovo spettacolo,
Preamleto? Hai detto che non metti in scena i classici, qui comunque c’è una qualche relazione con il testo di Shakespeare.[/B">
Ha debuttato questa estate al Napoli Teatro Festival, è andato molto bene. Con Massimo Foschi, Manuela Mandracchia, Michele Sinisi, Gianni D’addario, e Matteo Sintucci che, giovanissimo, fa Amleto. E adesso lo faremo a gennaio al Gobetti di Torino e poi all’Argentina a Roma. Purtroppo per colpa della riforma non gireremo un granché. Non è detto che a ottobre forse non si riesca ad arrivare anche a Milano. Ci tengo perché Milano è una città per me importantissima. Ci ho vissuto quasi dieci anni, mi sono formata. È una città che in questo momento storico vive anche un momento un po’ più fortunato rispetto a Roma. È un pochino più viva.
Preamleto racconta tutti i personaggi prima dell’Amleto. Il fantasma che non è un fantasma ma è un re, malato ma ancora vivo. Tutta la vicenda avviene prima e si conclude con l’inizio dell’Amleto. È divertente perché vediamo tutti questi personaggi prima di quella vicenda. Scopriamo anche cose di quei personaggi inaspettate. Questo Claudio ha un legame molto forte con suo fratello, non vorrebbe ucciderlo. Vediamo Gertrude in questa veste di madre che non riesce a essere madre come vorrebbe essere. Vive questo dramma nel non riuscire ad avere questo rapporto con il figlio Amleto, che a un certo punto prende il potere di nascosto al posto del padre. Questo testo era nato come una riflessione sul potere. È un progetto di scrittura che con Michele abbiamo portato avanti per tre anni. Abbiamo fatto diversi studi. Il primo l’abbiamo presentato al Franco Parenti in una rassegna sull’Amleto. Poi abbiamo continuato a lavorarci sopra. Abbiamo lavorato anche sull’idea di una famiglia mafiosa con una struttura gerarchica. Pian piano però si è persa la necessità di spingere su questo argomento e siamo andati ad analizzare quello che era l’Amleto e la chiave interessante è che il re arriva in scena e dice il contrario di quello che dice il fantasma al figlio: «Non vendicare mai la mia morte». Perché dice questo? Perché l’Amleto è in fondo un testo dove c’è morte, vendetta, violenza, sopraffazione che sono cose che la nostra società ha imparato bene a mettere in pratica. Questo re fa un gesto forte, fa un tentativo che non riesce a mandare in porto, quello di sottrarsi al suo ruolo di potente. Lui lo dice, «Ho comandato tutta una vita, ho avuto il potere. Non ne vale la pena». E tenta di tirare fuori suo figlio Amleto dal suo stesso ruolo. Tenta di tirare fiori Amleto dall’Amleto. Un’operazione impossibile e tutto lo spettacolo è un tentativo che va in questa direzione. C’è una parte più narrativa che parla di una famiglia con tutte queste persone guidate soltanto dai propri egoismi, bisogni e necessità. C’è quindi la storia di questa famiglia, di questo padre, di questa madre, di questo figlio, di questo servitore, Polonio, che è proprio l’esempio massimo di chi davanti ai potenti si inginocchia sempre e comunque. Di chi pensa, come anche noi cittadini possiamo pensare erroneamente, che mettersi a servizio di qualcuno che comanda e che ha la corona possa risolvere ogni problema. E poi c’è una parte più metateatrale dove si capisce che il re conosce l’Amleto, si capisce che lui sa qual è il copione che andrà a recitare e non lo vuole recitare. Vuole tirarsi fuori da quel testo. È stato molto coraggioso per Michele Santeramo lavorare su una cosa del genere. Perché giustamente lui mi ha detto un giorno: «Se dobbiamo lavorare su un “pre-Amleto” , dobbiamo confrontarci con l’Amleto in maniera chiara, forte, prendere una posizione». Penso che insieme siamo riusciti a raccontare qualcosa di forte tant’è vero che la scenografia, realizzata con gli stessi collaboratori di sempre, è un bunker. Abbiamo preso l’ispirazione dai capimafia che, quando si nascondono, si rifugiano in dei bunker che sono sotto le loro case. Il re deve essere messo là dentro perché non deve essere visto da nessuno. In questo bunker ci si entra solo attraverso botole, porte segrete. È lì, nessuno lo deve vedere, perché è malato. Si scoprirà che forse fa finta di essere malato, ci gioca, fa finta di avere l’Alzheimer. Fa parte di una strategia che il re sta mettendo in scena per cercare di sottrarsi da quel ruolo che non vuole più. E a un certo punto nello spettacolo ci sarà proprio Massimo Foschi che scenderà dal palcoscenico, da questo bunker. Un momento molto forte: scende e chiama il figlio invitandolo a scendere anche lui dalla scena, e tutto lo spettacolo si svolge all’interno di questo bunker, e il figlio non lo farà. Non scenderà. Impazzirà. O fingerà di essere pazzo. E Claudio, Gertrude e Polonio li troveremo vicino al trono che è una grande poltrona. E comincerà l’Amleto che conosciamo. 

La tua carriera di attrice è stata pure importante. Hai lavorato con Ascanio Celestini, Arturo Cirillo. L’hai definitivamente abbandonata?
La faccio meno, adesso ho fatto Viva la sposa, il film di Ascanio Celestini. Ho lavorato anche con Cristina Pezzoli, con Giorgio Barberio Corsetti, Alfonso Santagata. La mia carriera nasce come attrice. Per tantissimi anni non ho pensato di fare la regista. Volevo solo recitare. Poi, proprio nel 2003, Ascanio Celestini scrisse un testo per me – prima ma l’abbiamo messo in scena nel 2003 – e nacque questo spettacolo, Le nozze di Antigone, la mia prima regia che ho firmato insieme ad Arturo Cirillo. Era un monologo, ero in scena da sola. Lì ho sentito, un po’ per come ero, un po’per come sono, che non mi bastava fare l’attrice. Avevo bisogno di raccontare delle storie in un modo che dentro di me avevo chiaro. Avevo voglia di essere io a scegliere un testo che mi interessava. A scegliere un modo, uno stile con cui raccontarlo. Penso che fin da allora avessi molto chiaro quello che continuo a cercare ancora oggi in modi diversi. Sicuramente questo spettacolo, Due donne che ballano, ha una maturità diversa registicamente parlando, rispetto ad altri spettacoli che ho fatto. Sento che c’è sicuramente una crescita da questo punto di vista. Però quello che io cerco è sempre la stessa cosa, un teatro popolare d’arte, un teatro che sia comprensibile a tutti. Ma che sia di qualità. Perché oggi abbiamo o il teatro commerciale o il teatro di nicchia per addetti ai lavori. Perché non un teatro, come Due donne che ballano, che sia di qualità, che non rinunci a sperimentare nei linguaggi, nelle storie, nel testo, nelle immagini che propone, però comprensibile a tutti. Che arrivi a un pubblico vasto. Questo è il mio tentativo. Tutti i miei testi iniziali nascono da delle inchieste. Per Il ritorno sono rimasta mesi e mesi a Bergamo, per Ballare di lavoro, sul tema dell’immigrazione ho girato in tutta Italia. Nasce da un desiderio che io ho, morboso, verso l’osservazione della realtà che ho davanti. Parto sempre da questo. Adesso metto in scena testi che sono già scritti però sono testi che l’autore ha concepito partendo da un’attenta osservazione della realtà. All’epoca ero proprio io che andavo a osservare la realtà in giro. Intervistavo le persone e poi chiedevo a un autore di scrivere i testi a partire da quelle mie ricerche. O ero io stessa a volte a scriverli o ad affiancare l’autore con la scrittura. Poi da quello ho cominciato a interessarmi alla drammaturgia, poi da quella italiana sono passata alla drammaturgia straniera, a interessarmi anche ad altri paesi del mondo. Se c’erano storie o personaggi più complessi o interessanti per me. La mia ricerca è sempre un po’ quella. Cercare di dialogare con il pubblico, ma non per questo abbassare il livello di qualità di quello che propongo. Spesso c’è questa confusione quando si parla di teatro popolare. Qui al Carcano ieri hanno detto uno spettacolo ‘inaspettato’ perché così è per un certo pubblico. Per noi no, se andiamo a vedere uno spettacolo così non troviamo niente di strano, però per un certo pubblico forse la storia, il modo in cui è stata messa in scena, contiene una novità cui non sono abituati. Anche qui a Milano ora sono al Carcano, un teatro più tradizionale rispetto all’Elfo Puccini dove ero ospitata di solito. Però ieri lo spettacolo è stato apprezzato. Al pubblico vanno proposte cose. Io ho diretto il Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma per due anni, poi a giugno ho finito il mandato. Adesso ho ripartecipato al bando insieme ad Ascanio Celestini. Stiamo aspettando di sapere. Anche lì il pensiero che ho portato avanti è molto simile, cercare di programmare cose di qualità, tenendo conto che sei in una periferia e che non tutte le persone che vengono a vederti sono abituate al teatro o a certi linguaggi. Però non bisogna mai dire «Visto che qui c’è un pubblico che non è allenato, che non va tre, quattro volte a settimana a teatro, che non conosce le differenze, bisogna programmare cose facili, che tutti possano capire». Bisogna sempre osare invece, e ti parlo non da regista ma da operatore culturale. Cercare di spingere lo sguardo un po’ più in là, rischiare. Questo penso sia importante. Se no che facciamo? Se al cinema la gente va a vedere solo commedie, produciamo solo commedie? Quando parlo di creare un dialogo con il pubblico, non bisogna andare incontro quello che loro desiderano e mi dicono. Al Quarticciolo tanti mi dicono «Ma perché non metti i comici?» Perché no. Perché i comici te li vedi in televisione. Perché devo doppiare quello che già vedi in televisione? Non ho niente contro i comici, ma perché andare sempre lì dove quelle cose sono già state dette, viste in televisione? Non ci possiamo mettere in concorrenza con la televisione. Facciamo un’altra cosa, in un altro modo. È giusto difendere questa idea che c’è dietro. C’è da questo punto di vista una mia presa di posizione che è anche molto politica, di credere in una certa qualità e cercare di difenderla a tutti i costi.

(Milano, 10 dicembre 2015)
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