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La comica e disperata solitudine delle donne di Alan Bennett
a cura di Roberto Canavesi
Visto al Teatro Astra di Torino giovedì 23 novembre 2018
DI ALAN BENNETT 

CON MICHELA CESCON 

VERSIONE ITALIANA E REGIA DI VALTER MALOSTI; SCENE NICOLAS BOVEY; SUONO G.U.P. ALCARO; DISEGNO LUCI ALESSANDRO BARBIERI; LUCI MARTIN EMANUEL PALMA; COSTUMI GRAZIA MATERIA;ASSISTENTE ALLA REGIA ELVIRA BERARDUCCI

PRODUZIONE TEATRO DI DIONISO, PROGETTO GOLDSTEIN, PIERFRANCESCO PISANI IN COLLABORAZIONE CON INFINITO SRL
Si parte da risate e divertimento per arrivare alla rabbia e ad una sensazione di profonda ingiustizia: è di per sé inquietante la parabola emotiva di Talking Heads II, bignami teatrale di quel piccolo grande genio di Alan Bennett che Valter Malosti, in regia, e Michela Cescon, in scena, trasformano in un progetto teatrale multiforme. 

Nell'asimmetrica scena di Nicolas Bovey, interno stanza dalla prospettiva inclinata con di lato un’anonima poltrona, prendono vita due racconti di diversa fattura accomunati dalla presenza femminile: prima Miss Fozzard si rimette in piedi, grottesco itinerario di una donna, tutta casa ed ufficio, la cui esistenza è stravolta da movimentate sedute sadomaso con l’avvenente podologo, e dalla gestione di un fratello semi invalido con tanto di badante moldava pronta a prosciugarli il conto. A seguire in Notti nei giardini di Spagna si cambia registro affrontando a muso duro il delicato, e quanto mai attuale, tema della violenza di genere nel resoconto dell’amicizia tra una donna e la sua vicina di casa, disperata assassina di quel marito che per anni l’ha umiliata con indicibili torture fisiche e psicologiche. 

Diversi per contenuti e struttura, più vivace e ritmato il primo, a tratti più intimista ed interiore il secondo, i due testi di Bennett confermano lo spessore di una scrittura graffiante e mai banale che Valter Malosti asseconda con rispetto affidando al commento sonoro di G.U.P. Alcaro, ed al caldo e colorato disegno luci di Alessandro Barbieri, il compito di interloquire con l’interprete: lato suo, Michela Cescon, è splendida maschera ora di apparente ingenuità e candore, ora struggente simbolo di un’esistenza vissuta sotto il giogo della sofferenza e della violenza. Una semplice smorfia o un astuto ammiccamento, o la spiazzate lucidità nello svelare inquietanti risvolti di un per nulla idilliaco mènage famigliare, concorrono ad arricchire il caleidoscopio di immagini in ottanta minuti di un teatro di parola che spiazza e convince per leggerezza e profondità: scontata e naturale conseguenza, i ripetuti applausi finali non sono altro, per Michela Cescon, che il giusto tributo alla camaleontica capacità di tratteggiare esistenze agli antipodi, vite al limite attraversate da un atavico e forse inguaribile isolamento sociale ed affettivo.
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