Versione drammaturgica di György Kurtág dal dramma di Samuel Beckett
Prima esecuzione mondiale
Orchestra del Teatro alla Scala
Nuova Produzione Teatro alla Scala in coproduzione con Dutch National Opera, Amsterdam
Direttore: Markus Stenz
Regia: Pierre Audi
Scene e costumi: Christof Hetzer
Light designer: Urs Schönebaum
Drammaturgo: Klaus Bertisch
CAST:
Hamm: Frode Olsen
Clov: Leigh Melrose
Nell: Hilary Summers
Nagg: Leonardo Cortellazzi
Durata spettacolo: 2 ore
Sette anni di lavoro per raccontare in musica il senso tragico dell’esistenza evitando la trappola di un qualsiasi indirizzo interpretativo del testo. Rifuggendo da ogni tentazione di cedere alla sovrastruttura della tradizione. Mettendo a nudo la complessità e la contraddizione delle parole, che risuonano, in musica, ancora più potenti. Ancora più tragiche. Ancora più autonome da qualsiasi inquadramento narrativo. L’urlo di Hamm, il suo rantolo profondo da basso-baritono, i suoi sbadigli, sono il grido di un’umanità smarrita, l’urlo dell’angoscia e dell’impossibilità di soluzione di un’esistenza a cui non riusciamo a dare un senso e di cui non scorgiamo il compimento. Pesano persino i silenzi. Alcuni orchestrali passano quasi tutto il tempo a contare le pause, in attesa di un lampo, di una nota di una dissonanza.
Il cimbalon, la fisarmonica russa (strumenti anomali in un’orchestra operistica), le percussioni (persino le unghie dei percussionisti sulla grancassa) e il pianoforte sono strumenti che tornano spesso nei lavori del compositore ungherese e che ci arrivano delicati, frammentati, onirici; a momenti violenti, grotteschi ma mai sopra le righe, in una partitura che annulla ogni possibilità di spettacolarizzazione in un concentrato denso, saturo di possibilità espressiva di voci e strumenti. Il suono è quanto mai vivo, fisico, quasi dotato di una propria corporeità. Capace di generare interrogativi profondi nell’ascoltatore, allo stesso livello del testo e della parola. Una musica essenziale, funzionale al testo di Beckett, un canto che nasce dalla musicalità stessa della parola (il testo è messo in scena nell’originale francese con un’attenzione maniacale alla dizione) e che ne è prolungamento, logico e naturale, nel tempo e nello spazio. Quest’Opera, profonda ed essenziale, rappresenta l’anima (una delle possibili anime) di un secolo intero. Profondamente radicata nel '900 ne contiene tutte le istanze e le intuizioni. Fin de partie è il culmine della produzione di un maestro che oggi, novantaduenne, si porta dietro tutto il peso e l’esperienza di un’intera esistenza. Una riflessione in musica sulla vita stessa.
Questo Fin de partie rimarrà probabilmente tra le grandi scommesse vinte del Teatro alla Scala. Qualcosa che si studierà a lungo come un punto di riferimento, se non di ripartenza, della produzione teatrale contemporanea. Un’operazione dovuta, importante. Forse fondamentale. Ogni nuova Opera che appare in scena è sempre una boccata di ossigeno. Ci auguriamo veramente che il Teatro alla Scala prosegua in questa direzione, magari con il coraggio di rivolgere lo sguardo anche alle possibilità del nuovo millennio. Perché l’Opera, oggi più che mai, ha un estremo bisogno di contemporaneità.
@Ruth Walz