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Il sindaco del rione Sanità: un Eduardo dark
a cura di Giampiero Raganelli
Visto al Piccolo Teatro Grassi il 9 gennaio 2018
di Eduardo De Filippo 

regia Mario Martone 

con Francesco Di Leva, Giovanni Ludeno e con Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino, Daniela Ioia, Gennaro Di Colandrea, Viviana Cangiano, Salvatore Presutto, Lucienne Perreca, Mimmo Esposito, Morena Di Leva, Ralph P, Armando De Giulio, Daniele Baselice con la partecipazione di Massimiliano Gallo 

scene Carmine Guarino, costumi Giovanna Napolitano, luci Cesare Accetta, musiche originali Ralph P 

produzione Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale in coproduzione con Elledieffe / Nest - Napoli Est Teatro 

dal 9 al 28 gennaio 2018
Nei suoi percorsi napoletani, Mario Martone approda, per la prima volta, a un testo di Eduardo De Filippo, Il sindaco del rione Sanità. Un lavoro atipico nell'opera del grande commediografo partenopeo, che si tinge di tinte fosche, duelli, sparatorie, regolamenti di conti, testimoni pagati, medici compiacenti che redigono falsi referti, con tutta un'ultima parte macabra dove il protagonista banchetta, nel classico momento conviviale da rito napoletano di Eduardo, in fin di vita, ferito mortalmente. Un banchetto che porta sempre i richiami sensoriali, il vino rosso, l'arrosto, tipici dell'autore. 

Protagonista è don Antonio Barracano, una sorta di boss del rione, detentore di un potere privato: a lui si rivolgono le persone per dirimere i propri contrasti o chiedere favori. Una sorta di stato parallelo insomma ma, precisava Eduardo, senza aver nulla a che vedere con la camorra. Don Antonio è ispirato a un personaggio realmente esistito, un ricco mobiliere, non implicato quindi in traffici criminali, che `teneva il quartiere in ordine` e che frequentava il suo teatro. Un uomo che amministrava la giustizia di fatto, con saggezza, avendo nella vita subito ingiustizie. Semmai, per il commediografo, una denuncia dell'assenza dello stato e delle istituzioni. 

Per Eduardo, per quell'epoca forse poteva andare bene così. Ma Martone, e lo spettatore contemporaneo, che ha visto e sa come la camorra, e le mafie in generale, abbiano proliferato proprio ponendosi come autorità parallele, extralegali ed extragiudiziarie, non può ignorare questo comune retroterra culturale e antropologico. La Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, per esempio, arrivò a 'giustiziare' il presunto omicida di una bambina a seguito della richiesta di intervento dei famigliari, non fiduciosi delle forze dell'ordine ufficiali. 

Martone non può non fare un teatro di guerra, non fronteggiare e mettere mano nella realtà. Anche prendendo attori di NEST, il teatro militante, di frontiera, della periferia popolare di Napoli. E semmai il suo discorso è quello di mettere in scena le zone grigie tra bene e male, nella stessa concezione che lo ha portato nel film Noi credevamo a riflettere sui labili confini tra terrorismo e Risorgimento. 

Funzionale a questo discorso è, a questo punto, l'attualizzazione della vicenda scritta da Eduardo, in un contesto di boss rampanti con la rivoltella pronta, come è raffigurato don Antonio, reso anche molto più giovane rispetto all'anziano nobiluomo partenopeo del testo. Attualizzazione che è enunciata subito nella prima scena dove i personaggi usano lo smartphone e ballano al ritmo di musica rap. La Napoli di Il sindaco del rione Sanità filtrata da Martone è un ritratto desolante, di abusivismi, di patriarcati partalleli, di rapporti padri-figli distorti (`I figli si fanno poi si comprano` dice il testo). E Martone toglie anche l'ultima battuta del dottore che si ravvede decidendo di stilare un certificato di morte autentico per don Antonio. Un ulteriore cambiamento rispetto al testo di Eduardo riguarda la scena del ferimento mortale del protagonista che in origine dovrebbe rimanere fuori campo, solo riferito. Martone invece lo esibisce ma collocandolo appena fuori dal palcoscenico, ai limiti della ribalta, con un montaggio agghiacciante: la bambina che, contemporaneamente, sul palco prende un vassoio dal tavolo. 

Martone sa far detonare gli espedienti, i giochi propri del linguaggio teatrale con la sua abituale maestria. In un'epoca in cui la quarta parete non esiste più, il regista sa invece calibrare alla perfezione i momenti in cui oltrepassarla, come l'inizio con l'attore che avvisa gli spettatori o come appunto nel ferimento del protagonista. Oppure nel rendere con due statue di cani, poste ai lati del palcoscenico, il mastino di cui si fa riferimento nel testo. E l'essenza, e la metafora, del teatro povero risiede negli allestimenti dell'ambulatorio del dottore, come dei cambi scena, mettendo lenzuoli bianchi su poltrone e tavoli, come già previsto da Eduardo ma che si omologano, nella regia di Martone, con i cambi scena 'veri', agiti sul palco dagli attori, in un allestimento moderno senza intervalli tra gli originali tre atti.
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