traduzione Fausto Malcovati
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
regia Leonardo Lidi; scene e luci Nicolas Bovey; costumi Aurora Damanti; suono Franco Visioli; assistente alla regia Alba Porto
Teatro Stabile dell'Umbria, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Approcciare al teatro di Leonardo Lidi vuol dire innanzitutto confrontarsi con il teatro d'attore, forma d'arte che pone al centro della propria indagine la figura dell'interprete cui è delegata la totale responsabilità del gesto scenico: a nostro parere scelta fortemente "politica", per una sua organica attuazione la missione del regista piacentino necessità di solidi appigli che Lidi ha da sempre trovato in un team di artisti e collaboratori pronti a remare tutti nella stessa direzione, quale che siano l'epoca, il testo, l'autore.
E' stato così in passato, ed è così oggi per il Progetto Cechov il cui pregevole esito dipende tanto dalla lettura dei tre capolavori, quanto dalla loro trasposizione per la quale faticano una dozzina di interpreti vestiti alla perfezione dalla sempre brava Aurora Damanti, e chiamati a muoversi in spazi scenici, funzionali quanto privi di orpelli, al solito pensati ed illuminati da Nicolas Bovey: e se sul lavoro di gruppo ci si voleva concentrare, scelta migliore del medico di Taganrog non poteva esserci. Il gabbiano, Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi (cui potremmo anche aggiungere il quarto tassello dell'originaria tetralogia, Tre sorelle) sono ideali esempi di una scrittura che rifugge dal protagonismo, congegni teatrali di straordinaria poesia ed umanità sempre pensati per un disegno collettivo dove a risaltare non potrà essere questo o quel personaggio, semmai un'intera società.
Che per società si intenda una collettività civile, o forse la specifica comunità di artisti, questo poco importa alla luce dell'evidente sottotesto che si accompagna ai tre copioni, fulgidi esempi di un teatro di arrivi e partenze in cui poco si dice ma tanto si allude, dove la dimensione tempo è dilatata a dismisura pena trovarsi imprigionati in un eterno, infinito ed immutabile, presente: prima la scena spaziosa e nuda de Il Gabbiano, poi la lignea parete che fa da fondale a Zio Vanja, da ultimo il trionfo della plastica in quinte ed oggetti de Il giardino dei ciliegi, ambientazioni classiche o moderne per un viaggio lungo un'intera giornata che, messe da parte ideali quarte pareti, con il passare delle ore ha avvicinato artisti e pubblico, alla fine idealmente stretti in un collettivo abbraccio.
Nominare tutti gli interpreti, o ancor peggio citarne solo alcuni, sarebbe irrispettoso per un gruppo di lavoro che si nutre di presenze esperte come di altre più giovani, tutte indispensabili tessere di un mosaico attoriale unico possibile grimaldello per scardinare un'idea di teatro da cui oggi, a nostro parere, la scena italiana non può in nessun modo prescindere.
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