La parte finale dell’inverno, tutta la primavera e l’inizio dell’estate sono all’insegna di una "morte civile" della scena italiana che vede l’iniziale sconforto lasciar spazio a una lenta, costante, e soprattutto collettiva, presa di coscienza dell’impossibilità di subire passivamente una realtà di cui il singolo artista non poteva immaginare lo sviluppo. E mentre si discute di ristori ed ammortizzatori, legittime tutele necessarie per la sopravvivenza di un mondo dello spettacolo fatto da persone e famiglie, ecco far capolino i primi tentativi di nuove forme di espressioni artistiche mediate dal mezzo tecnologico: c’è chi abbozza prove sulla piattaforma zoom, chi utilizza gli stessi strumenti per promuovere non meglio precisati manifesti di rivoluzione teatrale, chi ipotizza un’improbabile nuova dimensione per rassegne e manifestazioni pensate dal vivo.
Poi arriva l’estate, con tutto quel che ne consegue: alcuni teatri riaprono, alcuni festival scelgono con coraggio ed ostinazione di (soprav)vivere all’aperto, pur in mezzo a mille difficoltà, la maggior parte degli addetti ai lavori resta però al palo, interrogandosi non senza timore su di un futuro dai foschi contorni. L’autunno è continuato sulla falsa riga dell’estate con l'avvio di nuove stagioni rivedute e corrette prima della nuova chiusura che traghetta ad un inverno mai cosi lungo: in taluni casi però, a differenza dei mesi precedenti, dalla teoria si passa alla pratica, dalle parole ai fatti, dall’immaginare nuove forme di sperimentazione alla loro concreta attuazione. E se nelle ultime settimane non si contano più i prodotti ibridi presentati via streaming, con sempre maggior forza irrompe il dibattito su di un possibile futuro del teatro in televisione per una querelle rafforzata da alcuni non isolati esperimenti ora pretesto per alcune riflessioni.
Il teatro non potrà mai vivere in televisione perché quel che viene meno nella "magic box" è la componente carnale dell’arte scenica: sono convinto che se chiedessi ad un campione di attori ed attrici, giovani o meno giovani, alle prime armi come di grande esperienza, di cosa sentano di più la mancanza in questo periodo, la risposta in molti casi sarebbe la relazione tra i corpi, l’interazione fisica fatta di sudore, gesti, contatti, in una semplice definizione "la fisicità del fare teatro". Contatto fisico tra interpreti, ma a pensarci bene anche tra artisti e pubblico: per chi vive sulla scena cosa c’è in fondo di più fisico della sonora risata o dell’imperturbabile silenzio restituiti da una platea in totale empatia? Tutte cose, queste, che la televisione non potrà mai comunicare.
Il teatro non potrà mai vivere in televisione perché l’essenza del teatro risiede nella poetica dell’hic e et nunc, del qui ed ora, magica alchimia che fa ciascuna replica diversa dell’altra, mettendo ogni sera l’artista nella condizione di vivere la sua parte in modalità differente da come l’ha vissuta il giorno prima: arte elitaria per definizione, il teatro vive nella presenza con quel pubblico che in quella sera è presente in quello spazio. E tutto questo non si può adattare all’omologazione comunicativa di un mezzo televisivo che se da un lato non prevede il rapporto diretto ed esclusivo tra chi fa e chi guarda, dall’altro può immaginare una fruizione differita, e quindi ripetibile all’infinito.
Il teatro non potrà mai vivere in televisione perché il teatro sopravviverà alla televisione che per sua natura vive nel presente. Il teatro no, non vive nel presente: semmai si alimenta del passato per indagare il presente proiettandosi nel futuro, e i suoi artisti, quale che ne sia la forma espressiva, sono gli elementi tramite di un virus universale ed inguaribile, chiamato arte, capace di insinuarsi sottopelle negli spettatori e di scuoterne le coscienze, anche a distanza di molto tempo. Il teatro sopravviverà a tutti noi.
Il teatro non potrà mai vivere in televisione: potrà forse abitarla se la televisione si mettesse a disposizione del teatro. In recenti spettacoli trasmessi sul piccolo schermo, o in streaming con regie televisive, sono parse evidenti le differenze di una ripresa teatrale per un pubblico televisivo da quella che dovrebbe essere una ripresa televisiva per un pubblico teatrale. Ininterrotti primi piani sul volto degli attori, quasi che un attore fosse solo "volto" e non anche "corpo", inquadrature di quinta, soggettive fisse che non considerano lo spazio scenico nella sua totalità: una regia televisiva in un teatro non può né deve essere come una regia televisiva in uno studio. Semmai prevedere che lo strumento tecnologico sia al servizio del prodotto teatrale, onde evitare che il risultato finale sia un ibrido televisivamente amorfo e teatralmente svuotato.
Da ultimo, ma non per ultimo, da più parti si invoca la creazione di una Netflix della cultura, ipotetica piattaforma dove dar vita a non meglio precisate forme di esperienze teatrali: lasciando da parte tutte le perplessità sull’effettivo significato di un tale progetto, mi limito a considerare che se lo si volesse veramente realizzare, fermo restando le modalità appena sopra indicate, non ci sarebbe da inventare proprio nulla: la tanto invocata Netflix della cultura l’abbiamo già in casa, si chiama RAI, Radio Audizioni Italiana, la tv di stato che con coraggio e la giusta dose di incoscienza potrebbe dedicare al teatro uno dei suoi numerosi canali tematici.
Tuttavia, ammesso e concesso che si facesse questo scatto, andrebbe considerato come la televisione spesso sia prodotto culturale a circuito chiuso che si serve del nome già conosciuto, del volto già noto, dell’attore da copertina o di personaggi, non a caso, definiti "televisivi" (come impietosamente documentato dal recente esperimento di Ricomincio da Rai Tre, in scena per quattro sabati di fila il sabato sera): ne consegue che un ipotetico sdoganamento del teatro in televisione dovrebbe prescindere da questo insieme di logiche, presupponendo una totale messa in discussione del consolidato impianto comunicativo, proprio della cultura televisiva, a beneficio della presenza di una comunità di artisti di estrazione e provenienza "teatrale", spesso però sconosciuti alla maggior parte dei telespettatori.
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