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Emigrazione, identità e appartenenza
Intervista ad Aleksandros Memetaj In Scena! a New York
a cura di Valeria Di Giuliano
`Albania casa mia`: migrazioni e patriottismo, l'artista italiano incontra gli albanesi di oggi a New York
Al Festival In Scena! di New York arriva `Albania casa mia`, uno spettacolo autobiografico di e con Aleksandros Memetaj, con regia di Giampiero Rappa e produzione Argot (Roma). Abbiamo chiesto ad Aleksandros di parlarci del suo spettacolo e del suo debutto nella Grande Mela
Dalla collaborazione Memetaj-Rappa nasce Albania casa mia, spettacolo vincitore dei premi al Festival di Resistenza Museo Cervi, Gattatico e al Festival Avanguardie 2030, Bologna. Albania casa mia è ambientato tra l’Albania e l’Italia degli anni ’90 e parla di un bambino che cresce lontano dal suo paese d’origine, dei sacrifici di un padre e del suo amore nei confronti della propria terra. La storia prende spunto dalle vicende realmente accadute ad Aleksandros Memetaj, nato a Valona (Albania) e cresciuto in Italia, dove ben presto scopre la passione per il teatro e per lo spettacolo frequentando l’Accademia di recitazione Fondamenta. La regia di Albania casa mia è curata da Giampiero Rappa, attore, regista e drammaturgo e vincitore della Terza Rassegna di Drammaturgia Emergente e del premio Enrico Maria Salerno per la drammaturgia.

Com’è nata l’idea di questo spettacolo?

È stato Giampiero Rappa a lanciarmi la sfida, poco dopo aver finito l’accademia a Roma, dove ci eravamo conosciuti. Ci siamo incontrati e mi ha chiesto da dove venissi. Gli ho raccontato la mia vita e soprattutto quella dei miei genitori che ritengo molto più eroica della mia. Mi ha chiesto di scrivere degli appunti, come in un diario e mi ha detto: “tu scrivi tutto ciò che ti viene in mente, senza pensare”. Era estate ed io ero in partenza per l’Albania. Non ho scritto nulla in quel periodo. Quando sono tornato in Italia mi sono chiuso in casa per tre settimane, poi io e Giampiero ci siamo rivisti e gli ho portato il monologo che al 99% è quello che faccio tuttora. Poco dopo ci siamo messi a lavorare e lo spettacolo ha preso forma.

Il festival InScena! permette a compagnie italiane di esibirsi in un contesto americano. Attraverso quali mezzi secondo te è possibile diffondere efficacemente il teatro italiano negli USA?
È una domanda difficilissima a cui rispondere. Non mi occupo di promozione culturale. Da giovane artista posso dire che quello che si può fare è cercare di creare un prodotto che sia qualitativamente alto, senza pensare a come portarlo in giro e dove. Infatti credo che il punto non sia portare gli spettacoli in giro, questo è un problema derivante da un altro molto più grosso: la qualità degli spettacoli è mediamente scarsa e spesso per trovare ciò che cerchi nel teatro devi capitare per sbaglio in un contesto off-off-off. Poi bisogna avere la fortuna di esser visto dagli occhi giusti, dalle poche persone (vedi Laura Caparrotti e Donatella Codonesu) che questo lavoro lo sanno fare davvero, alle quali preme trovare degli spettacoli di qualità uscendo da quelle dinamiche diplomatiche e politiche del teatro che poco hanno a che fare col vero senso dell’arte. Credo che In Scena! sia un esempio perfetto di un’organizzazione che si muove bene in questa direzione ideale.

È la prima volta che porti uno spettacolo negli Stati Uniti? Cosa significa per te essere a NY e soprattutto andare in scena in questa città?

Sì è la prima volta. Sono emozionatissimo. Sono già stato a New York un paio di volte. L’ultima volta era il 2009, avevo 18 anni. Mia zia mi chiese se mi sarebbe piaciuto restare a vivere e studiare lì ma io le dissi di no. Avevo paura di quella città, così grande da poter fagocitare un ragazzo e risputarlo chissà dove. Però le dissi: “So che un giorno verrò qui, quando avrò capito cosa fare nella mia vita”. Non ho cercato quel giorno, o forse si, però sento che quel giorno è arrivato. Sono pronto, ora sì. Adesso sono pronto ad affrontare quella realtà. Non vedo l’ora di confrontarmi col teatro di quella città. Spero di imparare molto e magari, perché no, creare un primo legame lavorativo con New York per poi tornare.

Cosa pensi o speri di riportare in Italia dopo quest’esperienza, sia dal punto personale che professionale?

Se si pensa che sto imparando il testo di Albania casa mia in inglese, si capisce bene che le mie aspettative per questo viaggio sono alte. Voglio conoscere, voglio imparare e voglio confrontarmi con quella realtà. Spero di essere all’altezza di questa città. Mi auguro di guadagnarmi la stima di quella piazza come sta succedendo in tutte le piazze italiane in cui sono stato. Certo, questa volta sarà più difficile ma io amo la fatica, il sudore e la paura che accompagnano la voglia di conquista. Mi piacerebbe inoltre riuscire a incontrare di nuovo Stephan Wolfert, un attore della compagnia Bedlam che ho avuto il piacere di incontrare a Roma l’anno scorso, a cui ho dato la metà di un mio anello, promettendo che me lo sarei andato a riprendere.

Perché questo spettacolo è da vedere? Cosa pensi o speri di lasciare al pubblico newyorchese?

Questo spettacolo affronta dinamiche comuni a tutto il mondo, a tutte le epoche: il fenomeno dell’immigrazione, sempre molto scomodo quanto attuale, il rapporto tra padre e figlio, l’amore per la propria famiglia e il concetto fondamentale dello “stare in mezzo” che non è una posizione geografica ma una condizione esistenziale, una condizione scomoda che però permette di poter osservare, respirare e capire. Quando ho scritto questo spettacolo non volevo suscitare pietismo. Io racconto solo la mia storia e quella della mia famiglia, cercando di far vedere le cose da un’altra prospettiva, una prospettiva che spesso non prendiamo minimamente in considerazione. Vorrei lasciare una ferita, una di quelle ferite allo stomaco che però fanno bene, che risvegliano la sensibilità, che ti porti appresso per giorni e giorni dopo lo spettacolo. Una di quelle ferite che rende lo spettacolo indimenticabile.

Lo spettacolo racconta di un figlio che crescerà lontano dalla sua terra di origine. Un tema che ricorre spesso anche per la cosiddetta “nuova emigrazione” verso gli Stati Uniti. Cosa significa oggi secondo te crescere lontano dalla propria terra natia?

Significa scappare da una madre che non vuole più suo figlio. Nessun uomo lascerebbe le proprie sicurezze, la propria famiglia, l’intero passato, una vita, solo per un’ambizione futura. Ci vuole qualcosa di più forte per provocare questo strappo e spesso dietro a questo strappo c’è l’impossibilità nel continuare a vivere in un determinato posto. Non è molto importante secondo me, per quanto riguarda l’emigrazione, dove si va ma da cosa si arriva e purtroppo, spesso, le persone non prendono minimamente in considerazione questa prospettiva, fermandosi solo alla paura (naturale) nel vedere persone diverse da te che ‘occupano’ il tuo giardino.

Quanto c’è del tuo essere italiano e albanese nei tuoi spettacoli?
Sono così grazie al fatto che sono stato educato da due genitori albanesi nel sistema italiano moderno, è la mia vita e quindi credo che questo sia insito nel mio modo di affrontare anche il lavoro. Sono il risultato del cosiddetto meticciato culturale e, a 25 anni, ne sono ancora in parte inconsapevole. Ma quando ti ritrovi in mezzo, appunto, e sai di essere il risultato di qualcosa, secondo me non sai mai che cosa sei davvero, perché non lo puoi sapere. Tu sei e basta. Poi se vuoi sapere più nel dettaglio che tipo di risultato io sia, ti consiglio di venire a trovarmi a maggio, al Festival In Scena! a New York.



  • Aleksandros Memetaj, Opening Ninght, Cherry Lane Theater - ph Ting Pan
    Aleksandros Memetaj, Opening Ninght, Cherry Lane Theater - ph Ting Pan
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