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A Trieste il teatro lo si vive COME PESCI VOLANTI…
a cura di Roberto Canavesi
Trieste, ad Hangar Teatri, da venerdì 10 a domenica 12 maggio 2024
A pochi minuti dagli alberati viali del centro, e dalla principale sala cittadina del Politeama Rossetti, Trieste ospita la sede di un interessante modello di realtà culturale, Hangar Teatri: un tempo carrozzeria abbandonata, gli spazi di Hangar sono da sette anni rinati a vita nuova grazie al quotidiano e coraggioso impegno di un gruppo di persone pronto a investire tempo, denaro ed energie per la realizzazione di un polo di assoluto rilievo.
Una sala da cento posti, una più piccola con mura in pietra per attività didattiche e formative, locali amministrativi e tanti progetti che ogni giorno vedono Hangar protagonisti, in sede come sul territorio, con programmazioni diffuse pronte ad intercettare e coinvolgere il pubblico triestino: in questa direzione è da leggersi il numero zero di Come pesci volanti, sei spettacoli e due masterclass in tre giorni dedicati alla creatività under 35 con protagoniste compagnie di varia provenienza.

Se il ricco fine settimana si è aperto con la Masterclass di danza di Pablo Girolami, coreografo e direttore artistico di Ivona chiamato a condurre un focus su fisicità e musicalità del movimento, il primo titolo in cartellone è stato Chamaleons del collettivo veronese Ersiliadanza, coreografia e regia firmate da Laura Corradi, con Tommaso Cera, Alberto Munarin, Gessica Perusi e Midori Watanabe danzatori in un’indagine scenica per ricordare come la visione antropocentrica della vita abbia spesso indotto il singolo a servirsi della terra e dei suoi abitanti, ignaro dei rischi che l’eccessivo sfruttamento di risorse e materiali avrebbe causato in ottica futura. Il tutto si risolve in una serie di "dialoghi" danzati, strutturate le sequenze a due, a tratti più dispersive le coreografie a quattro, con il corpo farsi interprete delle trasformazioni e dei mutamenti delle differenti stagioni di cui si compone il ciclo della vita.

Con Fragileresistente prodotto da Il turno di notte, diretto ed interpretato da Silvia Pallotti e Tommaso Russi, si scruta l’universo relazionale tra generazioni diverse: nell’incontro scontro tra un padre ed un figlio immaginato secondo modalità differenti, cosi come diversi sono gli approcci a momenti simbolici nel caso della celebrazione del 25 aprile, prende forma uno spettacolo soprattutto nella prima parte ben scritto e sostenuto con un interessante utilizzo scenico dell’unico elemento presente, un divano, ora rilassante riparo dove sdraiarsi, ora diabolica presenza in grado di fagocitare desideri, sogni ed immaginazioni. Se il sottotesto dall’inizio evidente è coinvolgere il pubblico nella ricerca delle ragioni di una pericolosa apatia esistenziale, i motivi che ci portano a cadere vittima di quel senso di impotenza capace di inibire pensieri ed azioni, il percorso dei due ragazzi lombardi si indirizza progressivamente verso l'epilogo drammatico segnato da linee narrative sovrapposte che non modificano nel complesso il giudizio positivo di un lavoro, attento e curato, capace di interrogare ed interrogarsi sulle prospettive non solo delle nuove generazioni.

Come terza proposta del festival si è assistito a Preferisco il rumore del mare di Collettivo Balt che Alessandro Balestrieri ed Eleonora Paris realizzano in modalità essenziale e senza fronzoli portando in scena due personaggi simbolo della società contemporanea: lui, manager d’assalto, vive a Londra dedito al lavoro che lo assorbe avvolgendolo nelle spire di quel capitalismo destinato a tritare tutto ciò che incontra sulla propria strada, affetti, tempo libero, hobbies. Lei, l’esatto opposto, conduce una quotidianità all’insegna del "vorrei ma non posso", in grado però di riscoprire l’importanza di una condizione umana tesa ad apprezzare le piccole cose, a vivere ogni attimo della giornata senza dover fare i conti con le assurde logiche del fare per produrre. Mondi opposti che una volta entrati in contatto si riconosceranno l’uno nell’altro incontrandosi in un campo neutro dai non pochi punti comuni.
Servendosi di un approccio più realista Alessandro, a tratti più intimista e sofferto Eleonora, i due interpreti alternano alle sequenze narrative un secondo livello immaginario che li vede, avvolti in impermeabile con cappuccio, muoversi come schegge impazzite in un ring quadrato in cui non possono avvicinarsi al centro: si rincorrono, si sfiorano, si inseguono, come animaletti da laboratorio girano di continuo in circolo dando forma ad una visione dell’esistenza dove la ricerca del punto di contatto e di relazione, alla fine trovata dagli omologhi londinesi, si scontra con pulsioni centrifughe e centripete capaci di mettere in crisi l’intero sistema identitario.

Altrettanto solida e di spessore è risultata la visione di Affogo, produzione Gommalacca Teatro scritta e diretta da Dino Lopardo, con Mario Russo e Alfredo Tortorelli applauditi interpreti della parabola di Nicholas, da piccolo aspirante nuotatore per poi, una volta cresciuto, trasformarsi in creatura idrofoba incapace di frenare frustrazioni e desideri repressi: piéce tragicomica al cui interno trovano spazio due vecchi zii dall’ambigua moralità, ma anche comportamenti borderline riconducibili all’ambiente famigliare materializzati in un contesto privato come il bagno di casa. Ed ancora, i non meno gravi soprusi della piscina, metafora di una società spesso teatro dove recitare una commedia dai foschi contorni.
La scrittura di Lopardo, intercalare ritmato di lingua e dialetto, spazia tra passato e presente definendo un doppio binario narrativo, così come duplice è la prospettiva di osservazione: in primo piano il bagno dell’infanzia/adolescenza, in secondo piano la piscina della maturità. I traumi del passato si estinguono con il passar del tempo? O forse, silenziose questo ingombranti presenze, lavorano sottotraccia condizionando scelte e comportamenti in età adulta? Questo tra le righe sembra chiederci un testo a tratti spiazzante che ha in Mario Russo, supportato da Alfredo Tortorelli, l’ideale interprete di una dolorosa parabola dal tragico quanto inaspettato epilogo.

Riferito della seconda masterclass che ha aperto l’ultima giornata, Self-tape - "Libertà di coscienza, libertà di parola. Stop" a cura di Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani, la sera precedente anche coinvolti nella presentazione del loro volume Legami (edizioni Editoria & Spettacolo), la programmazione di Come pesci volanti si è conclusa con un doppio appuntamento: in apertura il nutrito gruppo Labirion Officine Trasversali ha presentato la prima restituzione di Gassa d’amante, progetto in divenire da un’idea di Sofia Guidi con tutte le specifiche di una lavoro ancora in fase di costruzione: viaggio poetico attraverso le dimensioni di spazio e tempo, scandito dal succedersi di eventi di cui si compone l’esistenza umana, ai ragazzi romani non difettano certo impegno ed energia nell’approcciare un materiale che ora richiede di operare in modalità selettiva. Dopo aver lavorato accumulando idee ed azioni, il futuro progetto non potrà prescindere da un’attenta selezione in termini di scelta del filone principale: che sia narrazione, teatro visuale o rilettura dei rapporti tra realtà ed illusione, si avverte l’esigenza di un’attività di sottrazione del magma di parole ed immagini ad oggi presenti, pena la creazione di un unicum dalla non facile comprensione che certo non renderebbe merito allo sforzo ed impegno collettivo.

La chiusura della tre giorni è stata quindi affidata ai padroni di casa di Hangar Teatri con il loro Marìa, performance diretta da Elena Delithanassis, anche in scena con Marco Palazzoni ed Isabella Polisena: se una telefonata allunga la vita, recitava un vecchio spot pubblicitario, nel caso della protagonista, moglie ed assistente del mago Saturno, il destino ha in serbo strade diverse. Rimasta in panne sull’autostrada, la donna sale al volo sulla corriera, e da un fortuito incontro con una compagna di viaggio, in apparenza gentile e disponibile, si ritrova reclusa in una casa manicomiale impossibilitata a fare la tanto agognata telefonata al consorte: in breve Marìa perde la bussola della propria esistenza, suo malgrado rinchiusa in un istituto per pazzi sullo sfondo di quella Spagna franchista dove il verbum del dux non solo è legge, ma anche strumento in grado di manipolare le menti più fragili. E così, quando Saturno riesce a trovarla ed a farle visita, convintosi della presunta malattia mentale l’uomo inizierà anche lui a trattarla come se avesse di fronte una pazza, precipitando la donna in un baratro senza uscita in cui, secondo una logica molto pirandelliana, sana tra i matti capirà che l’unica possibile salvezza sarà l’accettazione della pazzia.
Ispirata ad un racconto di Garcia Marquez, Sono venuta solo per telefonare, la partitura drammaturgica è nella resa scenica quanto di meno letterario si possa immaginare: lo spazio buio prende vita nelle istantanee di un racconto che gli interpreti fanno vivere con poche parole e molte azioni, e dove basta un gesto, uno sguardo o una battuta appena abbozzata, per tramettere al pubblico il dramma e le inquietudini di anime travolte da un destino inaspettato. Lavoro impegnativo anche per lo spettatore impossibilitato a respirare ed intravedere possibili "svolte", ed al tempo stesso testimone di un racconto intriso di un realismo letterario di matrice sudamericana con cui indagare misteri del presente e zone oscure della nostra vita, facendo propria la lezione del triestino d’adozione Franco Basaglia solito ricordare come "visto da vicino nessuno è normale".

Con le loro specifiche differenze le sei proposte di Come pesci volanti hanno contribuito a definire un ricco mosaico di creatività artistica: numero zero, lo hanno con prudenza, e forse scaramanzia, introdotto i ragazzi di Hangar, rifacendosi ad una definizione che, dopo tre giorni vissuti a pieni polmoni, non può che lasciar spazio alla speranza di future edizioni.
Ad maiora, Hangar!
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