Intervista a Ernesto Orrico In Scena! a NY
Com’è nata l’idea di questo spettacolo?
Le storie che racconto con il mio teatro hanno in gran parte a che fare con l’emigrazione e con la Calabria. Anche oggi l’emigrazione è la nostra (dei calabresi) sfortuna e allo stesso tempo la nostra fortuna. Quella della contemporaneità non è più identificata nella valigia di cartone ovviamente, ma è un’emigrazione più di tipo intellettuale, di chi studia o lavora al nord o all’estero. È un tema che ha da sempre segnato il mio immaginario e mi appartiene molto anche da un punto di vista strettamente personale, i fratelli di mia madre vivono a Toronto e a Torino, molti dei miei migliori amici vivono fuori, a Milano, Bologna, a Ginevra, a Vienna. La Calabria è una terra che si protende oltre i suoi confini naturali, la penso come una sorta di ragnatela intrisa di vissuti e storie peculiari. Quando ho appreso la storia di Joe Zangara sono rimasto affascinato dall’umanità dolente che viene fuori dal suo memoriale, emerge la vicenda di un uomo che ha dovuto lottare sin dalla più tenera età contro avversità e svariate sfortune, che ha cercato nell’emigrazione un riscatto sociale che non ha trovato. Una storia senza happy ending, che non culmina con la realizzazione del “sogno americano”.
Il festival In Scena! permette a compagnie italiane di esibirsi in un contesto americano. Attraverso quali mezzi secondo te è possibile diffondere efficacemente il teatro italiano negli USA?
Certamente il web potrebbe essere usato di più e meglio per far conoscere il teatro contemporaneo italiano, ricco di approcci poetici particolari e di personalità attoriali e registiche che rinnovano la pratica di palcoscenico. È evidente, però, che bisognerebbe aumentare la possibilità di fare arrivare materialmente negli USA le nostre proposte, in questo senso sarebbe auspicabile costruire insieme alle istituzioni culturali italiane delle vetrine che possano ricevere dei finanziamenti adeguati, è banale dirlo, ma è un fatto da cui non si può prescindere, il teatro o è dal vivo oppure non è. Su quanta consapevolezza ci sia all’interno delle istituzioni (nel MiBACT in primis) in merito all’importanza di aumentare le possibilità di veicolare il nostro teatro oltre i confini nazionali, nutro dei fortissimi dubbi. C’è, in questo momento storico in Italia, una classe dirigente largamente disinteressata alle sorti di un’arte che ha sempre visto il nostro paese eccellere per qualità artistica e forza poetica.
È la prima volta che porti uno spettacolo negli Stati Uniti?
No, 10 anni fa, con la compagnia Scena Verticale sono stato ospite di alcune istituzioni culturali legate alle comunità italo-americane di Chicago e New York e nel 2013 ho partecipato con un altro mio spettacolo prodotto dal Teatro della Ginestra alla prima edizione del festival In Scena! Esperienze molto positive e stimolanti entrambe.
Cosa significa per te essere a NY e soprattutto andare in scena in questa città?
A NY le tipologie di teatro e performance proposte sono pressoché infinite e con livelli di complessità nella messa in scena assai differenti, noi presentiamo una forma estremamente semplice, musica acustica e un monologo in prima persona, in cui è fondamentale stabilire un contatto emozionale con il pubblico. In qualunque luogo cerchiamo la possibilità di scambiare un respiro autentico con chi sceglie di assistere alla nostra proposta; inseguiamo sempre quella sospensione del tempo che il teatro, con una alchimia apparentemente semplice, riesce ancora a generare.
Cosa pensi o speri di riportare in Italia dopo quest’esperienza, sia dal punto personale che professionale?
Mi interessa conoscere le opinioni di un pubblico che non è quello a cui inizialmente ho pensato, mi piacerebbe ci fosse l’opportunità di ricevere delle critiche e perché no anche dei suggerimenti; il confronto è sempre necessario e in particolare sono curioso di capire come verrà recepita la lingua del personaggio Zangara che è un italiano imbastardito dal dialetto reggino e ibridato da numerosi intercalari in inglese americano, una costruzione linguistica che cerca una verità teatrale non necessariamente sovrapponibile alla verità del personaggio storico.
Come ci si sente a portare in scena qui a New York e, in un certo senso, rappresentare un personaggio non proprio amato dal pubblico americano?
La cultura americana è piena di spettacoli, film e libri in cui vengono raccontati personaggi, reali o di fiction, che operano scelte estreme come quella di Joe Zangara. Il pubblico americano, e tanto più quello di New York, è assai smaliziato…
Secondo te quanto ha influito il processo di immigrazione negli Stati Uniti nell’idea radicale di Zangara?
Certamente Zangara, nonostante abbia preso la cittadinanza dopo poco tempo dal suo arrivo negli USA, e abbia vissuto barcamenandosi tra mille lavori, non si era integrato, le sue idee politiche radicali, per quanto confuse e in qualche modo mancanti di un profondo spessore ideologico, ne facevano un outsider. La sua personalità borderline condizionata dal suo stato di salute precario gli impediva di relazionarsi con una società altamente gerarchizzata e classista come quella degli anni ’20-’30 del secolo scorso. Il suo arrivare a decidere di compiere un attentato contro il presidente è il culmine di una vicenda privata trascorsa ai margini, un gesto iconoclasta attraverso il quale sublimare il proprio male di vivere.
Articolo pubblicato su La Voce di New York
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