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Das Kaffeehaus/La bottega del caffè
a cura di Francesca Romana Lino
Visto al Teatro Fontana il 12/01/2018
di Rainer Werner Fassbinder 
traduzione Renato Giordano 
regia e adattamento scenico Veronica Cruciani 
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia 
9-14 gennaio 2018
La domanda affiora spontanea: ha ancora senso portare in scena un classico? E, se sì, come e perché? Parlando di Vincenzo Monti, lo si definì “gran traduttore dei traduttori di Omero”; ironia a parte, resta sempre un po' il dubbio di un'azione ridondante, quando si tratti di far rivivere qualcosa che già altri hanno rimaneggiato. Ce n'è davvero bisogno? In fondo tutto si gioca un po' qui, nell'esile crinale fra divulgazione e interpretazione, fra voglia di far conoscere un testo capace di parlare ancora alla contemporaneità e desiderio di forzarne i vettori o scompaginarne le strutture per renderlo ancor più esplicito. Già, ma a quale prezzo? Quando, come e a che condizione tradire un testo significa tradurlo in modo ancor più fedele e rispettoso? Un paio di stagioni teatrali fa ricorreva il quattrocentenario della morte di Shakespeare. Come immaginabile, si sono moltiplicati gli spettacoli, studi, adattamenti, libere riletture delle opere del Bardo: filologicamente fedeli le une, spregiudicatamente innovative le altre, tutte comunque intente a mostrare come, in fondo, davvero non ci sia nulla di nuovo sotto il sole. Ecco, quindi è questo il senso – e anche la forza e il vigore – di operazioni del genere. Ma si ha davvero urgenza di comunicare qualcosa di diverso, in filigrana al classico o è sufficiente metterlo in scena, tal qual è, riadattandone giusto il linguaggio o i riferimenti culturali, così da farne spiccare la stridente contemporaneità? 

La scelta di Veronica Cruciani, in questa Das Kaffeehaus, sembra essere testualmente “conservativa”. Apre con una veglia funebre, benché presto volta in minuetto – “Una Venezia lugubre e a tinte fosche”, non a caso, è stato scritto a proposito della pièce del bavaro –, così da accompagnarci attraverso lo svelamento “di disperazione, solitudine, violenza, desiderio di potere e infine sopraffazione verso il prossimo” come si legge nelle note di regia. Questo negli intenti. 

Sempre dalle note di regia apprendiamo che “Nonostante si tratti di un’opera del 1969, la società che ne viene descritta essenzialmente non è molto diversa da quella che viviamo oggi, per questo la mia intenzione è di ambientarla in una Venezia contemporanea. Ci sembra che i personaggi nell’essenza interiore somiglino a molti protagonisti delle feste mondane, dove si ostentano denaro, bei vestiti e una finta cortesia”. E quelli sono, i segni: la bottega del caffé viene rappresentata come un locale da movida (resta giusto il tocco di una carta da parati finto retrò, ma poi pure di tendenza), dove l'essenzialità degli spazi/elementi scenici e un disegno luci assolutamente efficace e senza sbavature, costruiscono un continuo gioco di rimandi fra passato e presente. Così se la fattura delle tazzine, ad esempio, sa d'antan, al contrario gli abiti, gli arredi, le stesse maschere e le luci (giocate fra la freddezza asettica del racconto denotativo, le penombre nela connotazione degli a parte o, al contrario, le esplosioni cromatiche nei momenti di disvelamento) ci paralano dell'oggi; perfetta sintesi è il tappeto sonoro, che gioca fra lo sciabordio della laguna e musiche, che alternano tecno e riadattamenti alla Rondò Veneziano

È l'invenzione dei trenini a La grande bellezza style, a parlarci dell'oggi; ma, non meno, dell'oggi ci parla quell'ossessivo calcolo e ricalcolo del denaro, quel demone del gioco d'azzardo o quel crescendo di ferocia verso i propri simili o quell'essere disposti a tutto – (ben) pagando, s'intende –, che, invece, sono già del testo di Fassbinder e in quello di Goldoni, prima ancora. Di una contemporaneità impressionante, poi, i personaggi: tutti maschere di ruoli sociali comunque usurpati e tutti alla ricerca di una legittimazione, che non possono avere che dagli altri, che pure intimamente disprezzano. È la logica dei like e dei follower: di quell'esser-ci, che, lungi dall'essere, più spesso dice di un apparire che diventa, però, condizione essenziale, prima che esistenziale

È il bluff di partiture sociali, in cui non resta che affidarlo al livore dei propri momenti a parte, l'ammissione delle proprie tristezze e fragilità; per il resto the show must go on! Non importa se sappiamo di non esser davvero dei conti o se ci sentiamo vecchi, se nascondiamo mogli in remote vite che vorremmo archiviate o se demoni inconfessabili (il gioco o, forse, un intenerimento “socialmente non accettabile”) ci agitano come burattini senza fili; tutto sta nell'ostentare una sicurezza, che magari non ci appartiene e nel cercare alleanze e, possibilmente, un mostro, contro cui scagliarsi in branco. 

Struggente, qui, è la figura di Don Marzio, che da napoletano (così era nella versione di Goldoni), viene trasformato in slavo: interpretato da un godibile Francesco Maria Ettore Migliaccio, gioca col suo ruolo, modulando ironia, ferocia e lampi melanconici, che – sarà che siamo a Venezia e che, in qualche modo, lui pure è un presta soldi – non possono non ricordare lo shakespeariano Shylok. Non da meno i suoi colleghi: Filippo Borghi ovvero Eugenio il “compulsivo” – che, come scherzosamente dirà Don Marzio, passa da “moglie, moglie, moglie”, a rischio di sembrar “poco virile”, a “gioco, gioco, gioco”, dove, quest'ultimo, come dirà, invece, il Conte, era considerato “simbolo di viriltà”, perché solo all'uomo era concessa la “libertà” di “puntare tutto su una carta...” –, Ester GalazziLisaura, la ballerina dai facili costumi promessa sposa del già accasato Conte –, Andrea GermaniTrappola, ovvero il garzone di bottega, che in più di un'occasione salva/parteggia per Eugenio, nonostante la sua ingratitudine e recidività –, Lara KomarVittoria, la versatile moglie di Eugenio –, Riccardo MaranzanaRidolfo, proprietario della Bottega e perfetto interprete del parvenu, nel sottile dualismo fra ansia da riconoscimento e ostentazione di un distacco politically correct –, Maria Grazia PlosPlacida, moglie di Flaminio, vera identità del Conte, generosa nel non sempre facile gioco scenico – e Ivan Zerbinati – l'anziano e libidinoso Pandolfo, tenutario della bisca. Uno spaccato d'umanità notevole, in cui sicuro oggetto di riflessione sono le dinamiche relazionali, giocate sulle tinte di ferocia e umiliazione, in un crescendo di sopruso e regressione, che, forse, questa messa in scena non riesce a restituire in modo efficace. Non c'è grottesco, né realismo, né parodia. Forse sarebbe toccato affilare gli arnesi del mestiere e saper giocare di sottrazione: poche, ma ben precise scelte, portate fino alle estreme conseguenze, spesso risultano più efficaci di un cerchiobottismo che s'illuda di poter accontentare tutti.
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